1915, il canto spezzato. Musica e poesia armena
Una tragedia che pochi conoscono e troppi nascondono
Primo giorno di cogestione al liceo Berchet e già torno a casa entusiasta. Entusiasta, ma profondamente scossa. Nella testa si mescolano alla rinfusa voci, suoni, immagini, racconti appartenenti ad una terra e ad un tempo in apparenza lontani, eppure così vicini. Riecheggia una voce straniera, femminile, profonda e potente, quella del soprano armeno Ani Balian, il cui nonno è sopravvissuto al genocidio armeno del 1915.
Alternando il racconto a canti e poesie tradizionali, accompagnati dal pianoforte, documenti, testimonianze, foto e video, ci ha trasportato in un’altra dimensione, suscitando le lacrime di molti. “Ricordate, ragazzi, la vita è una lotta continua. Difendete con forza e coraggio i vostri ideali, ricordando che tutti noi, nel nostro piccolo, possiamo cambiare il mondo. Vi saluto chiedendovi un favore: aiutatemi a diffondere questa storia, troppo spesso dimenticata.” Ed è questo che ho deciso di fare.
Bisogna sapere prima di tutto che la grandezza dell’Impero ottomano si fondava su una ragionevole tolleranza delle minoranze interne. L’inizio del declino coincise con l’inizio delle persecuzioni: nel periodo precedente la Prima guerra mondiale si affermò il governo dei «Giovani Turchi», anturchisti convinti del primato dell’etnia turca e di conseguenza della necessità di una turchizzazione delle minoranze e di una unificazione di tutti i popoli turchi in un impero unico e indivisibile, esteso dal mar Egeo ai confini della Cina.
“Che cos’è il nazionalismo?” ci ha chiesto allora Ani “Sorge da un sentimento di profonda inferiorità. I Turchi discendono da un popolo rozzo, bellicoso, che ha conquistato vasti territori per l’assenza di opposizione, ma che si è sempre sentito culturalmente inferiore rispetto ai popoli vinti. E gli armeni, amanti del bello, furono le vittime principali della loro invidia: i loro giardini erano più curati, i loro abiti più raffinati, i capelli meglio acconciati; amavano la letteratura, la musica, l’arte. Per questo, ovvero senza motivo, furono sterminati. È da anni che i Turchi negano il loro reato e comprano il silenzio generale, complottando con diversi Paesi”.
I massacri della popolazione cristiana (armeni, siro-cattolici, siro-ortodossi, assiri, caldei e greci) avvenuti in Turchia tra il 1915 e il 1916, sono ricordati dagli armeni come il Medz yeghern, “il grande crimine”. “Quando si vuole eliminare un popolo” spiega Ani “il primo bersaglio sono gli uomini. In questo modo donne, bambini e anziani restano poveri e indifesi”. A partire dall’aprile 1915, nel giro di un mese più di mille intellettuali armeni, tra membri dell’élite di Costantinopoli, giornalisti, scrittori, poeti, parlamentari furono deportati verso l’interno dell’Anatolia e massacrati lungo la strada. Poi il mirino si allargò: giovani appena maggiorenni furono concentrati in “battaglioni di lavoro” dell’esercito turco e in seguito uccisi, mentre il resto della popolazione fu deportato verso la regione di Deir el-Zor in Siria. Le marce della morte coinvolsero circa 1,2 milioni di persone, tra uomini, donne, bambini e anziani: morirono per fame, malattia, sfinimento o colpi di fucile, sotto la supervisione degli ufficiali tedeschi, alleati di guerra degli ottomani.
Ani ci ha salutato intonando i versi potenti della canzone “Ils sont tombés” di Charles Aznavour: “…Nessuno alzò la voce in un mondo euforico / mentre un popolo annegava nel proprio sangue / l’Europa scopriva il jazz e la sua musica / i lamenti delle trombe coprivano le grida dei fanciulli…”
Alessandra Palombelli
Fotografia di Armin T. Wegner, militare paramedico tedesco che ha rischiato la propria vita per denunciare gli orrori compiuti in Anatolia, anche dai suoi compatrioti.