L’ex sindaco Pillitteri: “Il Berchet, laico e diverso”
- Categories Carpe Diem, Interviste
- Date 11 Aprile 2017
Intervista all'ex sindaco della Milano tra gli anni Ottanta e Novanta
“Le dispiace se fumo?” Paolo Pillitteri, ex sindaco socialista di Milano in carica a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta, mi accoglie così al tavolo del suo ufficio in zona Porta Nuova. Sulla scrivania, giornali e riviste. Alle pareti, vari ritratti di Bettino Craxi. Uno, in particolare, attira l’attenzione: in calce reca una dedica personale: “A Rosilde (sorella di Craxi e moglie di Pillitteri, ndr) e Paolo, Bettino”, e si merita un posto di tutto rispetto, sopra la scrivania di Pillitteri. La conversazione, inevitabilmente, inizia dall’esperienza politica più importante del berchettiano celebre di questo mese: l’amministrazione di Milano.
Trent’anni dopo il suo ingresso a Palazzo Marino, al netto dei giudizi personali, resta un grande dibattito sulla “Milano da bere” che lei ha guidato, dall’86 al ‘92. Quale eredità rivendica oggi di aver lasciato a Milano con più orgoglio?
Non c’è dubbio che la Milano di ieri sia fortemente presente in quella di oggi. La “Milano da bere” non era altro che lo slogan di un aperitivo, che funzionava e piaceva. Poi il significato si è trasformato con il tempo. In realtà, il punto vero è che la Milano degli anni Ottanta ha posto le basi della Milano di oggi: la città attraversava certo un periodo di grande benessere e sviluppo, ma soprattutto quella era la Milano che reagiva al decennio precedente. Un decennio complicato, duro, molto pericoloso, iniziato con la strage di Piazza Fontana. Oggi Milano è vivace e in pieno benessere quanto allora, non vedo grandi differenze.
Pisapia, intervistato da noi qualche mese fa, ha detto che Milano ha le energie necessarie per far proseguire questo periodo di benessere. È d’accordo?
Non c’è dubbio. La fortuna di Milano è di avere sempre reagito ai cambiamenti di sistema. Dopo gli anni Sessanta Milano assorbì migliaia di immigrati, immettendoli nel circuito del lavoro. Oggi sono cittadini milanesi a tutti gli effetti. Qual è la forza di questa città? Innanzitutto i milanesi. Vede, il passaggio dal Secondario al Terziario fu molto complesso: noi l’abbiamo risolto, con più facilità di qualsiasi altra città. Questo perchè Milano sa conservare un suo carattere di fondo, che noi chiamiamo in maniera un po’ letteraria milanesità. La milanesità non è solo la laboriosità, che pure è importante: è la capacità di sfruttare ciò che è dentro la città. E dentro la città, indubbiamente, vi sono grandi ricchezze. Ad esempio, già negli anni Ottanta, quando non c’era ancora l’elezione diretta del sindaco e bisognava cercare a fatica le maggioranze in Consiglio, sono state previste le grandi opere sul piano urbanistico che oggi vediamo realizzate. E a Milano non ci sono solo le giunte: c’è una classe dirigente che è stata sempre all’altezza della situazione.
Venendo alla politica a cui poco fa accennava, Vittorio Feltri, che recentemente si è scusato per averla messa nel mirino negli anni di Tangentopoli, ha scritto: “In quel periodo i socialisti erano di moda, contavano parecchio, avevano il potere in tasca e lo usavano, esattamente come i democristiani e i comunisti, ma davano l'impressione - a differenza degli altri - di sciuparlo con arroganza”. Oggi, diversamente, i partiti vengono accusati di non saper formare classi dirigenti capaci di gestire il “potere”. Qual è la sua opinione in merito?
Io penso che oggi le classi dirigenti vengano formate in maniera non del tutto soddisfacente. Il motivo è banale: non ci sono più i partiti. Nelle numerosissime sezioni un tempo si andava a discutere della città. E in questo modo si esprimeva un ceto, a partire dei giovani, che si misurava con i problemi concreti. Così fu allevata una classe dirigente che ha retto nel tempo. Adesso le cose non sono migliorate: la messa in soffitta dei partiti, avvenuta con Tangentopoli, ha impoverito la città. Con tutti gli errori, i peccati e i reati commessi, la politica resta l’ubi consistam dei necessari confronti tra le forze politiche e del rapporto con la realtà. Anche se questo, va detto, a Milano è superato dal fatto di essere una città ricca, benestante.
A questo proposito va detto che la fine del suo mandato da sindaco coincise con Tangentopoli e con l’ascesa di Berlusconi, campione dell’antipolitica. Secondo lei oggi i giovani hanno voglia di politica oppure li vede, come spesso si dice, “disillusi”?
Sicuramente hanno molta meno voglia di quanta ne avevamo noi, sono meno motivati. Insomma, se la politica diventa essenzialmente un confronto mediatico, non funziona. E questo perché manca il livello intermedio. Ripeto: sono spariti i partiti, le associazioni, le case della cultura. Per un giovane oggi non c’è molta attrattività da parte della politica. Io non sono certo nostalgico, il passato non è la fonte di tutte le felicità. Però l’assenza di alcune cose che vi erano in passato provoca certamente disaffezione.
Non crede che la principale differenza con la sua generazione sia la mancanza d’iniziativa?
Può essere. È chiaro che le spinte contano e il pregresso influisce. E se il pregresso, come la guerra e il terrorismo per noi, è negativo, c’è una spinta al miglioramento. Oggi prevale la cultura della mediatizzazione, che rende superficiale ogni cosa. E c’è anche un po’ di qualunquismo, sia a destra che a sinistra. Tutto questo frena un giovane che vuole affacciarsi alla politica. E mi faccia dire una cosa: internet è la versione digitale della televisione, livella molto e non porta affatto ad approfondire. E se si guardano i talk show c’è da mettersi le mani nei capelli…
Tornando a Milano, lei si trasferì in città molto giovane, e frequentò il Berchet tra il ’54 e il ’59. Come ricorda quegli anni?
Sono atipico in questi giudizi: sono stato in collegio a Sondrio dai salesiani, fino al ginnasio. Conoscevo però già Milano: i miei zii abitavano qui e mio padre era stato comandante dei carabinieri in città fino al 1950. Quando sono venuto a Milano definitivamente ho vissuto uno dei periodi più belli della mia vita. Credevo che il Berchet non finisse mai: ero tra i pochi a pensarla così, forse perché ero legato agli amici, alla scuola in sé. Eravamo molto campanilisti, dicevamo: “Fai il Beccaria? Non conta nulla...” In più, ho avuto la fortuna di avere professori molto bravi. Di lettere avevo il prof. Lazzaro, che aveva un fascino particolare: era come un maestro e (sorride, ndr) accusava le nostre poesie di banalità… Avevo un ottimo rapporto anche con il preside, Joseph Colombo. Quando poi iniziai a fare politica, mi sorprese che il rapporto di devozione che da ragazzo avevo avuto per lui si fosse conservato nel tempo. Sono stato fortunato: se per altri il berchettismo non è stato questo, per me è stato un periodo bellissimo, pur non essendo un “secchione”.
Tra i suoi insegnanti, nella sezione D, vi fu don Giussani. Che ricordo conserva di lui e dei suoi insegnamenti?
Sono stato amico di don Giussani, ma dopo il liceo. Io sono cattolico, ma sentendo parlare di Cl francamente ho sempre pensato che fosse meglio rimanere libero. Forse in me è sempre rimasto vivo il concetto del “libera Chiesa in libero Stato”. Certo, don Giussani non faceva politica, però nei fatti il risultato era quello.
Con il tempo don Giussani è cresciuto di importanza e l’ho anche frequentato. Non mi sono mai però impegnato con lui. Forse perché ero molto affezionato ai preti del “Leone XIII”, che avevano un circolo cinematografico dove organizzavano la visione dei film seguita da un dibattito. Li ho frequentati molto. Tanto che il mio primo articolo che uscì su “Critica Sociale”, la rivista di Turati, era sul cinema. Devo a loro la mia passione cinematografica.
In generale cosa le hanno lasciato i suoi anni al Berchet?
Al Berchet ho imparato il laicismo, non so per quale strano motivo. Ho imparato la tolleranza: sopportarsi, dire le cose che si pensano, confrontarsi. Per me era un liceo a sé, forse perché ero molto campanilista. Il Berchet mi ha sempre dato la sensazione di essere diverso da tutti gli altri, proprio perché c’era un abitudine a pensare libero, senza imposizioni. Non solo eri “costretto” dai voti a imparare, e quindi era un luogo di informazione culturale, ma era anche un luogo di formazione. Però certo, si parlava molto anche di politica: nel 1956, quando ero in quinta ginnasio, con tre amici saltai lezione e andai a manifestare sotto la sede del Pci di Milano per contestare l’appoggio dei comunisti italiani all’invasione sovietica in Ungheria. Il giorno dopo il preside Colombo ci convocò e ci disse sarcastico: “Pensate voi che l’armata sovietica, dopo avervi visto coi calzoncini corti di fronte alla sede del Pci, si ritiri da Budapest?”
Anche Rosilde Craxi, la sua futura moglie, frequentò il Berchet.
È vero, ma io la conobbi dopo, all’università. E quasi per caso: eravamo in coda per le iscrizioni e lei, davanti a me, stava ferma. Mi arrabbiai e le dissi di muoversi. E così la conobbi.
A proposito del suo matrimonio, come viveva il fatto di venire costantemente indicato come il “cognato di Craxi”?
Ah, non me ne fregava assolutamente nulla! Anche perché io provengo da una esperienza diversa: ero stato socialdemocratico, solo dopo l’unificazione ci trovammo insieme. Faceva comodo dirlo, ma era vero, cosa potevo farci? Io provavo a spiegare che non dovessi poi molto a Craxi. Certo, divenni sindaco per il Psi anche grazie a lui, ma era il segretario del partito, era inevitabile. E poi, va detto, a Milano è sempre difficile imporre qualcosa.
E Craxi che personalità aveva?
Bettino aveva un pessimo carattere, ma fascinava molto. Aveva una grande carica: più che autoritario, era molto autorevole. E questo influenzava i giudizi su di lui, che per questo motivo erano uguali e contrari.
Qualcuno l’ha paragonato a Renzi.
Un po’ è vero. Renzi ha spostato molto il suo partito, verso destra. Il suo limite, rispetto a Craxi, è di guardare con superficialità a tutti gli altri. E certamente è stato molto agevolato dalla sua capacità di usare i mass media. Sotto questo aspetto è molto più simile a Berlusconi che a Craxi. Ora ha perso e vedremo, perché c’è sempre un prima e un dopo in un uomo politico. Ricorda: quando in politica perdi, perdi tutto.
Per concludere, una domanda sul suo presente. Da alcuni anni è tornato a fare il critico cinematografico, la sua vecchia passione.
Il cinema è stato il primo amore della mia vita, e mi accompagna tuttora. Così come da giovane andavo con un mio amico al “Cinema Centrale” dove l’ingresso costava 100 lire e vi restavo interi pomeriggi, oggi quando Sky trasmette durante in una serata un ciclo di film non mi alzo dal divano.
Che film consiglierebbe ai berchettiani del 2017?
“Una giornata particolare” di Scola, è davvero importante. Racconta cosa fosse veramente la vita quotidiana durante il fascismo: è una grande lezione di storia. Per quanto riguarda i film americani, l’ultimo di Mel Gibson è davvero un bel film. Oppure Scorsese, grande regista. Insomma, la verità è che i grandi film parlano di noi, e fanno storia.