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      Ci affidiamo alle testimonianze e alle conclusioni di chi un
      conflitto lo ha visto e commentato con i propri occhi; presentiamo un articolo di Ennio
      Caretto, corrispondente all'epoca dal Vietnam del Corriere della Sera: VIETNAM, LA SCONFITTA AMERICANA Il 9 giugno del '72, una fotografia che sarebbe assurta a simbolo
      delle atrocità della guerra del Vietnam sconvolse gli Usa: ritraeva una bambina di nove
      anni, nuda e urlante, che correva sull'asfalto, le carni piagate dal Napalm. Oggi quella
      bambina, Phan Thi Kim Puc, vive in America, è moglie e madre, e ha chiamato il figlio
      Huan, Speranza.  
        
          |    Una foto emblematica del conflitto in Vietnam,
 i terribili effetti del Napalm sui civili
 |  Ancora. Il 14 marzo '73, un pilota venne liberato dopo cinque anni
      e mezzo dallo "Hanoi Hilton", il carcere delle torture e del lavaggio del
      cervello nord-vietnamita, minato nel fisico e nella mente. Oggi, l'ex prigioniero, John
      McCain, è un senatore repubblicano, ed è un candidato alla presidenza degli Stati Uniti.
      Ci sono voluti quasi un trentennio, il crollo dell'Urss, l'allacciamento dei rapporti con
      un Vietnam sì, sempre comunista, ma molto diverso, perché la Superpotenza riuscisse a
      chiudere il capitolo della sua unica sconfitta in questo secolo. Ancora cinque anni fa,
      essa pareva incapace di accettare la realtà. Sebbene il presidente Reagan avesse eretto
      un emotivo monumento ai caduti, una parete di marmo nero con 60 mila nomi che scende nel
      prato di Washington, la guerra vietnamita era "tabù". Se qualcuno ne parlava
      era solo per recitare il mea culpa, come Robert McNamara, il suo promotore, il
      ministro della Difesa del presidente Kennedy: "uno sbaglio madornale" disse tra
      le lacrime. Per la maggior parte del mondo, non ci furono mai dubbi, né ce sono tuttora: l'America
      non doveva intervenire nel Vietnam, ma lo fece e pagò un caro prezzo. A causa del
      Vietnam, quelli a cavallo del '70 furono gli anni dell'antiamericanismo in Europa, della
      crisi dell'Alleanza atlantica, del fulgore sovietico, del mito delle rivoluzioni. La
      Superpotenza si spaccò in due: mentre McNamara ricorreva al "body count", cioè
      la conta dei cadaveri nemici per vincere la battaglia della pubblica opinione, i figli dei
      fiori organizzavano dimostrazioni di protesta nella strade sputando sui reduci, e
      l'attrice Jane Fonda si faceva ritrarre ad Hanoi su un fusto di un cannone nelle braccia
      del nemico. A vent'anni dalla pace nel '95, Mc Namara si convertì al colpevolismo. Nel
      libro "che non avrei mai voluto scrivere" ammise, attribuì la disfatta nel
      Vietnam alle "lacune culturali storiche" degli Usa e della loro "cieca fede
      per le tecnologie". Definì la guerra "più che inutile, dannosa: perché fu la
      matrice del nostro cinismo, della rottura del rapporto fiduciario tra stato e cittadino,
      dell'anti-politica". Nel Vietnam, ammonì, affondano le radici del rifiuto
      dell'America di affrontare i suoi problemi dei fiaschi successivi all'estero, dello
      scandalo Watergate che costò la presidenza a Richard Nixon. Milioni di vite umane
      sacrificate per nulla, vent'anni rubati a due generazioni?
 
 
        
          |    Soldati americani scoprono il rifugio di un
          vietcong
 |  No, o per lo meno non completamente, è la risposta che il revisionismo
      storico fornisce oggi a queste domande negli Stati Uniti. Rivisitato dopo che le ferite si
      sono rimarginate e le polemiche attutite, riesaminato alla luce della vittoria che cambiò
      il corso dell'umanità, il conflitto del Vietnam comincia a trovare una parziale
      giustificazione. Neppure gli innocentisti possono cancellare gli orrori del defoliante
      "agente arancio"  e la corruzione del regime di Saigon, o possono
      riscattare la teoria del dominio: cade il Vietnam, cade l'Asia. Ma il conflitto vietnamita
      non è visto soltanto più nei termini dell'irredentismo di Ho Chi Min.Retrospettivamente esso appare a molti americani una tappa sia pure buia e dolorosa, del
      tormentato cammino verso "la democrazia in ogni paese" nella seconda metà del
      ventesimo secolo. Senza quel conflitto ha rilevato per esempio il nonagenario George
      Kennan, l'architetto della dottrina del contenimento dell'Urss e della Cina, forse
      l'espansionismo comunista non si sarebbe fermato. Il conflitto aggravò la frattura fra
      Mosca e Pechino, ne consumò molte energie e assommato alla successiva e fatale spedizione
      del Cremlino in Afganistan, indusse a poco a poco il comunismo a ripiegare su se stesso. A
      uno a uno crollarono i miti di Stalin, di Castro e dello steso Ho Chi Min.
 C'è chi sostiene che l'operazione dei revisionisti è solo di recupero, e che il
      conflitto vietnamita non sarà mai considerato "giusto".
 Ronald Regan, il vincitore della guerra fredda, non fu però di quella opinione.
      Considerò il conflitto un male inevitabile: prima o poi, sostenne, l'America sarebbe
      stata obbligata a rispondere alla grande sfida comunista con una sfida globale non locale.
      Aggiunse: i mezzi furono sbagliati, ma il principio era giusto. Su quella base, Regan,
      arrivato alla Casa Bianca sei anni dopo la pace del Vietnam, capovolse la sfida: costrinse
      l'Urss e la Cina a una gara militare ed economica che le avrebbero sfiancate. Il muro di
      Berlino crollò senza che si sparasse un colpo di cannone.
 Insieme con altri giornalisti italiani, anch'io fui diretto testimone degli ultimi giorni
      a Saigon. Non ho mai scordato ciò che vidi: i ricchi che ballavano al Circle sportif come
      i passeggeri sulla tolda del Titanic; i poveri che mendicavano o rubavano sui marciapiedi;
      i contadini ignari del conflitto uccisi dal fuoco incrociato dei due eserciti; la folla in
      fuga ai primi missili che urla in francese "la grande guerre, la grande
      guerre!"; il colonnello che si sparava alla tempia al Parlamento, pagando con la vita
      la lealtà all'alleato americano; i potenti che si mettevano in salvo e i guerriglieri
      Vietcong nascosti nell'albergo Continental, quello del romanzo "Ugly American" Graham
      Greene.
 Ce ne andammo vergognandoci di essere stati degli osservatori estranei, protetti da una
      sorta di immunità. In contrasto con molti colleghi mi ero persuaso che la maggioranza dei
      sudvietnamiti non volesse l'unificazione, e che quella del Vietnam del Nord fosse una
      guerra di conquista. Come bianco e europeo, mi sentii reo di due tradimenti:l'intervento
      non richiesto prima e il colpevole abbandono poi.
 E non mi capacitai che lo scontro ideologico tra le Superpotenze fosse sfociato nello
      stupro dell'Indocina e in milioni di morti, cambogiani e laotiani inclusi. L'occidente
      -non solo l'America- e il Vietnam, la Russia e la Cina sono oggi chiamati a lavorare
      insieme per cancellare quella macchia.
 Ennio Caretto    Ecco le conclusioni di una grande firma del giornalismo
      italiano: Luca Goldoni I MORTI INUTILI E' quasi assurdo buttare un occhio pietoso sul Vietnam solo adesso
      che c'è la pace in vista. Eppure proprio in questi giorni m'è accaduto di ascoltare
      gente diversa, in ambienti diversi, commiserare il Vietnam. Ci eravamo abituati a questa guerra remota, ogni sera un filmato al telegiornale, ogni
      tanto un rotocalco con una copertina atroce, una strada sbarrata per un corteo, che roba
      è, carovita? No, Vietnam: una parola che era diventata vuota, intercambiabile, per chi
      protestava sfilando e chi protestava imbottigliato in auto. (...) i grandi mezzi di
      informazione ci rendono sempre più informati e sempre più indifferenti. (...) Adesso che
      si parla di accordo, anzi sembrava che la fine del conflitto fosse questione di ore, la
      morte ha improvvisamente riacquistato un valore individuale: c'è un soldato nel sud o nel
      nord, c'è un marinaio, c'è un pilota che muoiono mentre "si stanno definendo"
      i dettagli dell'accordo. E' quasi grottesco e irriverente stabilire una graduatoria
      dell'infamia della morte in guerra. Eppure è più forte di noi. I morti dell'ultima oro,
      i morti mentre si intingono le penne nel calamaio delle trattative sembrano ancora più
      assurdi e più inutili. L'ultimo soldato morto in una guerra ha sempre avuto una sua mesta
      celebrità. (...) Forse sapremo il nome dell'ultimo pilota americano morto in Vietnam; non
      sapremo certo quello dell'ultimo vietcong o dell'ultimo sudvietnamita, i visi tutti
      uguali, gli sguardi più rassegnati che atterriti degli uomini del terzo mondo dove anche
      la morte costa di meno.
 
        
          |    Uno dei tanti caduti del conflitto
 |  Se c'è un'agitazione sindacale e le trattative riprendono, succede che
      anche lo sciopero venga revocato. Le trattative in Vietnam sono alla stretta finale, ma
      nessuno revoca la guerra. Anzi, si legge nelle corrispondenze che non si è mai combattuto
      così duramente a Quang Tri e che "nelle ultime ventiquattr'ore" i bombardamenti
      dei B-52 -che oramai non hanno assegnati obiettivi ma aree- sono stati più massicci
      dall'inizio della guerra. Anni e anni di conflitto hanno dimostrato che, militarmente, in
      Vietnam non ha vinto nessuno. (...)Ciò che è insopportabile è l'idea che, mentre si
      giocano le ultime carte a tavolino, nel Sud e nel Nord Vietnam si continua non a vincere o
      a perdere, ma soltanto a morire. Una donna resterà vedova mentre si discuterà su un vocabolo dell'accordo, un figlio
      resterà orfano mentre si metterà una virgola. Il Vietnam è sempre stato troppo lontano
      per toccarci emotivamente: questo tardivo requiem per gli ultimi morti, un poco ci
      riscatta. Se questi morti dell'ultima ora riescono a farci trasalire, se non proprio a
      commuoverci, a strapparci un attimo da un'indifferenza elevata a dottrina, è forse segno
      che da questa disumanità può nascere ancora una scintilla umana.
 25 novembre 1972 
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