“Ricercate la contemporaneità”
- Categories Carpe Diem, Interviste
- Date 13 Aprile 2017
Intervista a Gad Lerner, ex berchettiano
“Ricordatevi di ricercare la contemporaneità, anche in una scuola come il liceo classico. Bisogna saper guardare a ciò che succede nel mondo oggi, e dipende da voi.”
Queste le parole con cui Gad Lerner, giornalista, presidente del comitato editoriale di "Laeffe" e blogger dal 2007, sprona noi giovani a guardarci costantemente intorno, utilizzando e sviluppando il nostro senso critico. Lo scorso 18 gennaio ci ha accolti nello studio di casa sua, che è il paradiso di tutti gli amanti della lettura: quattro pareti ricoperte da centinaia e centinaia di libri. In quanto ex berchettiano ora divenuto famoso, la redazione del Carpe Diem lo ha intervistato per l’ormai altrettanto celebre rubrica.
Cosa lo ha colpito maggiormente nel viaggio tra gli islamici italiani che ha fatto per il suo ultimo programma “Islam Italia”?
Sicuramente colpisce il contrasto fra il fatto che la comunità islamica è ormai una componente ineliminabile della società italiana e la paura di cui è ancora oggetto. Anche fra loro incombe l’incubo della guerra che si combatte intorno all’Islam e sono dilaniati tra le tradizioni dei paesi d’origine e gli usi del paese in cui vivono ora. Per rispondere in modo conciso alla tua domanda, ciò che più mi ha stupito è la condizione della donna: la sua libertà, la contesa intorno al suo corpo e la sua sottomissione a codici religiosi e non.
Il tema dell’Islam spesso viene legato al tema dell’immigrazione. Lei è stato definito “buonista” o anche peggio, ma qual è la sua opinione? Secondo lei c’è un nesso tra il terrorismo islamico e l’immigrazione?
“Buonista” è un termine che al liceo classico non si può usare, nonostante i nostri dizionari siano diventati straordinariamente accoglienti verso neologismi e simili. Inoltre trovo che capovolgere nel dispregiativo e nell’ironia un atteggiamento di bontà non sia logico. In ogni caso, forse vengo attaccato per la mia vicenda personale: anch’io sono un cittadino italiano nato dall’altro lato del Mediterraneo (Gad Lerner è nato a Beirut nel 1954, ndr), anch’io da bambino sono immigrato, anch’io ho fatto la fila all’Ufficio Stranieri della Questura perché mi rinnovassero il permesso di soggiorno. Mentre frequentavo il Berchet ero un apolide, e ho ottenuto la cittadinanza italiana solo con il matrimonio. Nella storia delle civiltà che studiate, l’idea che si possa essere cittadini pur essendo nati altrove è estremamente scontata, ma nel’Italia moderna si fa più fatica ad accettarla. Per finire, legare l’immigrazione all’Islam è indice di scarsa informazione: solo ¼ degli immigrati in Italia sono mussulmani. Accusare solo l’Islam vuol dire voler chiudere gli occhi davanti ad un problema che invece dobbiamo affrontare.
Lei è uno dei firmatari di una petizione contro l’occupazione della Palestina. Nella situazione attuale, ricca di eventi più o meno gravi, pensa che questa questione possa passare in secondo piano?
Innanzitutto, io non credo alla tesi secondo cui l’incendio scoppiato in Medio Oriente sia stato causato solo dal conflitto arabo-israeliano: ci sono stati e ancora sussistono altri problemi, come la divisione tra Sciiti e Sunniti. Io, in quanto ebreo figlio di genitori nati in Palestina e con gran parte della mia famiglia ancora lì, dopo mezzo secolo dalla “Guerra dei sei giorni” con cui Israele occupò i territori palestinesi penso che sia finalmente giunto il momento di ritirarsi. Il fatto che Israele combattesse per la sopravvivenza non giustifica però cinquant’anni di occupazione. Hanno generato veleni tali da trasformare un conflitto nazionale e territoriale in una contrapposizione religiosa: gli uni considerano una bestemmia ritirarsi da un territorio perché citato nella Bibbia, gli altri considerano l’attacco a Israele una guerra santa. Quando Dio, la Bibbia, il Corano, la difesa della propria verità assoluta vengono abusivamente messi in mezzo, si cade nel fanatismo e nel terrorismo religioso.
Ha detto che la sua famiglia è in Israele e che lei ha un legame molto forte con quel luogo. Nella sua famiglia come veniva vissuta la Shoah? Se ne parlava?
Quando avevo la vostra età in casa se ne parlava pochissimo. Era un buco nero: si intuiva qualcosa ma, anche se sembra assurdo, ciò che era successo era troppo vicino. In mio padre c’era come un senso di vergogna: solo i suoi genitori erano emigrati da quella che allora era la Galizia (attuale Ucraina ndr) in Palestina. Tornavano tutte le estati a trovare i parenti, finché questi non sono scomparsi, probabilmente nelle prime fucilazioni di massa dell’estate del ’41. Io ho portato lì i miei figli, perché penso che sia importante costruirsi la consapevolezza di ciò che è successo. Quel tipo di traumi, quando non vengono raccontati, si trasformano in nevrosi. Mia nonna, la mamma di mio padre, non ne parlava mai e per questo era isterica, nervosa, sospettosa, suscitava imbarazzo in famiglia perché non capivamo che dietro c’era un dramma.
Cambiando argomento, secondo lei quali sono le maggiori differenze tra giornalismo televisivo e giornalismo condotto su un blog e quale personalmente preferisce?
Il blog è il luogo della conversazione, che ha per sua natura elementi di improvvisazione e superficialità. L’ho verificato anche su me stesso, sul blog scappa la battuta, lo sfottò, spesso si dà a torto importanza ad un attacco ricevuto. Tuttavia l’immediatezza a volte è pericolosa. La televisione è una via intermedia tra il blog e il mezzo che mi sta più a cuore, la carta stampata. L’unica chance per il giornalismo televisivo di non precipitare nella logica del blog, quella del colpo ad effetto, è che dietro ci sia dello studio, dell’approfondimento, che deriva sì dall’andare sul posto, ma dopo aver studiato ed essersi informati e documentati.
Quindi il suo consiglio per aspiranti giornalisti è quello di informarsi?
Il mio consiglio è quello di andare sul posto con un buon corredo di libri e informazioni, andarci per così dire “studiati”. Io tuttora uso quaderni per prendere appunti e li conservo sempre. Oltre al lavoro sul campo, per noi giornalisti il “consumare le suole delle scarpe”, ci deve essere la documentazione.
Lei che percorso ha seguito dopo la maturità per diventare un giornalista?
È stato casuale ed inconsapevole, quello che mi ha spinto a comunicare e a farne un mestiere è stata la militanza politica. I primi giornali per cui ho scritto, che ho creato, su cui ho dovuto lavorare, erano giornali della militanza. Non dovete avere paura di esprimere una passione. Il punto sta nel non accontentarsi delle verità che avete in tasca, facendo il giornalista vengono continuamente rimesse in discussione. Applicare senso critico e mettere se stessi in discussione è forse la parte più bella del mio lavoro.
Pensa che in questo momento la scena politica sia abbastanza stimolante per un giornalista?
Penso di sì, perché credo che voi, forse più nel male che nel bene ahimè, non stiate vivendo anni di pace, di crescita economica, di nuove relazioni internazionali come la mia generazione. State vivendo un momento drammatico, e avete di fronte questioni e domande enormi e per certi versi affascinanti: puoi cercare gli schieramenti di buonisti e razzisti, oppure puoi chiederti perché quest’anno la maggior parte dei rifugiati arrivati in Italia arriva dalla Nigeria, che è avviato a diventare il terzo paese più popoloso del mondo. Per citare altri esempi delle domande a cui la vostra generazione deve trovare una risposta si può parlare della feroce guerra scatenatasi all’interno dell’Islam, o dello scricchiolio evidente del sistema economico fondato sul ruolo della finanza. L’età giusta per porsi queste domande è proprio la vostra.
Legandosi a ciò che diceva sulla sua generazione, in che periodo ha frequentato il Berchet e che ricordi ha?
Io in realtà sono stato solo due anni al Berchet, anche se è stato un periodo molto importante per me. Ho fatto il ginnasio al Parini, e poi nel ‘70/’71 io e un gruppo di amici ci siamo spostati al Berchet perché era visto come la scuola più aperta, più vivace, meno irreggimentata, ed in effetti era così. C’era un pluralismo culturale notevole: la sinistra, CL con don Giussani, e il clima era molto bello. Quell’anno ero nella 1G, e mi sono occupato solo di politica, ritrovandomi così con quattro materie a settembre. Nella totale costernazione della mia famiglia mi sono fatto bocciare e l’anno successivo ho frequentato le scuole serali, dove ho incontrato un’umanità straordinaria. L’anno successivo, il ‘72/’73, sono rientrato al Berchet, con dei professori davvero bravi. Verso maggio ho deciso di recuperare l’anno e ho dato la maturità. Anche se alla fine ci ho passato solo due anni, il Berchet sul piano emotivo e della riconoscenza è la mia scuola.
Pensa che il liceo classico sia un indirizzo ancora valido?
Per dirlo basta guardare le statistiche, anche quelle delle università all’estero. A me questo sembra intuitivo, ma sta alla sensibilità di chi lo vive far sì che non sia una scuola a senso unico, dove è solo l’insegnante che trasmette. Ai miei tempi c’era uno scambio ricchissimo: l’esuberanza giovanile, che talvolta frenava lo svolgimento del programma, ha prodotto un arricchimento reciproco di professori e studenti. E, nonostante ci siano state anche manifestazioni violente, venivamo da cinquant’anni in cui i ragazzi si erano massacrati nel senso letterale del termine. Noi al confronto vivevamo all’acqua di rose, per fortuna.