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     di Walter Jens
 
      "Andavo sul battello per Venezia... Mio Dio, con quale 
      commozione rividi l'amata città, dopo essermela portata nel cuore per 
      trent'anni... Riudii la sua quiete, lo sciacquio misterioso contro i 
      silenziosi palazzi, e la sua nobiltà legata a un senso di morte mi avvolse 
      di nuovo. Facciate di chiese, piazze e scalinate, ponti e calli con i loro 
      rari passanti mi si rivelarono con sembianze inaspettate e fluttuanti. I 
      gondolieri si scambiavano il loro richiamo. Mi sentivo come a casa..." 
      una città dove 
      oriente e grecità formano attraverso la sostanza italiana una favola 
      lontana e meravigliosa. Est ed Ovest, Sud e Nord, grecità 
      ed oriente, ascesa e caduta, plasticità e caos - antitesi della specie e 
      provenienza più varie - si chiariscono nel quadro storico della città 
      adriatica e s'innalzano a simboli vincolanti. Thomas Mann ne è sempre 
      stato consapevole: conobbe la città fin dal suo primo viaggio in Italia, e 
      non ha mai esitato a citarla spesso in saggi e novelle.Sotto il simbolo e l'allegoria di Venezia si rivela 
      l'intima unione di Bellezza e Morte, forma e decomposizione, purezza greca 
      e goticismo magico arabeggiante: come già von Hoffmansthal, anche Thomas 
      Mann vede nella vecchia metropoli adriatica  
      mortifera perfezione, 
      quella plastica perfezione ed immacolata autosufficienza, che egli, per 
      tutta la sua vita, cercò di perlustrare in forme sempre nuove, 
      avvertendone però anche le seducenti e pericolose possibilità. Già
      La morte a Venezia, punto di partenza per 
      ogni dissertazione che verta sul rapporto di Thomas Mann con l'antichità 
      classica, illumina la problematica del bello-perfetto in modo emblematico: 
      la grecità appare qui per la prima volta come quintessenza di una pura, 
      intoccabile bellezza, di cui è indiscussa signora la morte. E nel segno 
      della morte Gustav von Aschenbach si accinge alla ricerca della bellezza. 
      Quando, stanco di sé e appesantito dai suoi doveri, si reca una sera di 
      maggio al cimitero, egli incontra un uomo che punta saldamente il bastone 
      al suolo, tenendolo inclinato, e ne appoggia ai fianchi il manico, coi 
      piedi incrociati… un uomo le cui labbra sono ritratte, così da lasciar 
      sporgere i denti lunghi e bianchi; nessun dubbio che si alluda qui 
      all'antica rappresentazione della morte, come attestano Lessing e 
      Schiller: il viandante coi piedi incrociati e il bastone piegato da parte 
      e puntato ai fianchi, corrisponde fino al dettaglio alla famosa 
      raffigurazione lessinghiana dal titolo Come gli antichi 
      raffiguravano la morte. Ma non si tratta qui solo di
      y‹natow, docile sorella del sonno, 
      che lo sbigottito Aschenbach incontra davanti alla cappella: è anche 
      Hermes, nelle sembianze e nella sua funzione di accompagnatore dei morti 
      (psicopompo), che invita tramite il suo aspetto di viandante il titubante 
      Aschenbach a seguirlo, e lo incoraggia a intraprendere quel viaggio da cui 
      egli non farà più ritorno.E' qui che, al confine fra Europa ed Asia, gli parve di 
      trovare quella  
      Come Hans Castorp e il giovane Joseph, come Adamo 
      qadmon, l’uomo primigenio e Adrian Leverkühn, anche Gustav von Aschenbach 
      intraprende un viaggio nel regno dell'Ade, da cui solo le figure divine 
      del mito - la Tetralogia di Joseph le chiama Attis e Adonai, 
      Osiride e Tammuz - possono risalire alla luce del sole. Al poeta non è 
      concessa una cosa simile: Aschenbach viene condotto da Caronte, sotto le 
      sembianze di un gondoliere che non possiede la licenza, colà dove lo 
      aspetta Hermes, ora sotto le sembianze del bel divino fanciullo. 
      Era come se il pallido e amabile psicagogo gli sorridesse, 
      lo chiamasse con un cenno; come se egli, levando mollemente la mano dal 
      fianco, alludesse, sospingesse verso il regno allettante della morte. E, 
      come già altre volte, egli si avviò a seguirlo. L'efebo 
      Tadzio, Hermes, diviene il pedagogo, che introduce il maturo Aschenbach 
      nel regno della bellezza, ed in questo modo lo annienta. Un pensiero base 
      di Thomas Mann, che ha sempre guardato alla bellezza pura con sospetto e 
      imbarazzo, e che sostiene di sapere, fin dalla Morte a 
      Venezia, che il bello culmina nella perfezione della 
      grecità, ed essa a sua volta nell'adorazione della plasticità priva di 
      macchia del corpo.Tadzio, l'efebo polacco, assume il ruolo dello 
      straniero venuto da lontano, e conduce il docile Aschenbach, dapprima 
      lentamente, e poi sempre più in fretta, alla sua predestinata fine:
       
      La morte a Venezia, e poi analizzerà molto precisamente 
      più tardi, soprattutto nel Nono frammento per il 
      problema dell'Umanità e nelle "operationes spirituales" 
      de La montagna incantata. La grecità 
      appare seduttiva, la plasticità un estremo pericoloso, solo sostenibile 
      nei limiti di un'alta civilizzazione. Perfezione e bellezza si associano 
      facilmente alla demoniaca freddezza, ed il trapasso nell'illimitatezza 
      della morte è appena riconoscibile. Ciò che un attimo prima era 
      contemplazione di epicurea felicità, diviene un attimo dopo torbida 
      incoscienza o incontrollabile esaltazione. Come figlio del suo secolo, 
      Mann formula l'ambivalenza di questa situazione con linguaggio 
      nietzschiano, e ci rappresenta l'apparizione del dio dionisiaco tramite la 
      descrizione della gloria dell'Atene classica nella scena di Socrate e 
      Fedro sotto il platano dell'Ilisso. Razionalità e coscienza, plasticità e 
      calcolo si tramutano improvvisamente in sogno ed ebbrezza, ed in questo 
      stato di trance ed irrazionalità Aschenbach esperimenta l'epifania del 
      dio, accompagnato dal grido di evoè e dal 
      suono del flauto. Lo scenario muta: l'epidemia colerica tramuta l’immagine 
      serena di Venezia, il paesaggio deificato che si eleva a mondo mitico, col 
      suo mare che diviene il Ponto, lo splendore del sole che diventa una copia 
      di Atene, le sue albe che divengono Eos; tutto questo s'estingue, e rimane 
      solo lo squallido e macabro scenario delle nebbie miasmatiche della 
      pestilenza, dove ha luogo l'apparizione del dio straniero.Non a caso Tadzio appare come una copia di statue 
      classiche: "il volto pallido e gentilmente assorto, incorniciato dai 
      capelli biondo miele, la linea schietta del naso, la vezzosa bocca, 
      l’espressione soave e divina di gravità, ricordavano le sculture greche 
      dell’epoca aurea …". Nel malizioso ma serio divino fanciullo Gustav von 
      Aschenbach incontra la bellezza della forma, come controparte della vita, 
      incarnata in una forma corporea. Dove regna la bellezza, misura e critica 
      perdono di peso e d'influenza, e si rivela un'antinomia fra il principio 
      plastico del figlio della natura, ed il contegno critico dell'uomo dello 
      spirito, antinomia che Mann mostra per la prima volta ne  
      Il capo di Eros, dallo splendore 
      giallognolo del marmo pario), e una socratica superiorità 
      era capace di misura e distacco: "Aschenbach era tentato di minacciarlo 
      col dito. 'Ti consiglio, Critobulo,' pensava sorridendo, 'fai un viaggio 
      di un anno! Perché di tanto tu hai bisogno per risanarti'". Presto però 
      l'amore socratico si trasforma, distanza ed ironia scompaiono 
      insensibilmente, ed alla fine, sotto l'argenteo luccicante 
      azzurro dell'etere, si procede alla ricerca della 
      bellezza in sé. Il mondo fantastico dei campi Elisi, l'alito leggero 
      d'Oceano, l'infocato carro del dio sole, si rivelano pericolose seduzioni. 
      All'adorazione del bello si associa un'indolenza dell'anima, e lo sguardo 
      ormai rapito di Aschenbach scambia alla fine bellezza di forma e 
      perfezione dello spirito. Non a caso egli guarda al mondo di Platone in 
      una condizione già guardata da Platone stesso con critico distacco: nell'enthusiasmòs 
      nemico del lògos, nell'esaltazione di 
      estasi ed ebbrezza, che gli fa vedere il corpo dell'efebo come 
      modello e specchio di bellezza spirituale.La morte di Aschenbach è l'estrema conseguenza di uno 
      sviluppo, che era iniziato con la rinuncia all'ironia e la lenta rimozione 
      di ogni analisi critica. Al principio tutto appariva assai assennato e 
      distaccato: tecnicistica e fredda approvazione tocca alla figura di Hermes 
      con i tratti di Eros ( 
      Tetralogia 
      di Joseph - sono uno vicino all'altra. E non invano Aschenbach, sul punto 
      di morire, diviene uno "scultore" di parole, alla cui origine erotica egli 
      crede. Come trasognato, riconosce acriticamente la dottrina platonica, 
      secondo cui la via della bellezza è anche via di Eros; ma la risalita 
      verso lo spirito e lo sguardo indietro dagl'Inferi gli rimangono 
      impossibili; infatti, quando si rivolge a Fedro, egli, che un tempo si era 
      rivolto a Critobulo con tanta autoconsapevolezza, non è più un socratico 
      da un bel pezzo. La catabasi nel regno 
      degl'Inferi rimane irripetibile; Aschenbach, che si era affidato a 
      Hermes-Eros come accompagnatore delle anime, e aveva dimenticato la vita, 
      per aver adorato la forma, che ne è creatrice, oltre ogni senso e misura 
      di un'estetica ebbrezza e di amori omoerotici, deve pagare questo atto con 
      la morte.La forma perfetta - intesa come perfetta assimilazione 
      di archetipo e copia - nasconde, secondo l'opinione di Mann, la stessa 
      potenzialità della malattia: da un lato essa può liberare e beatificare lo 
      sguardo del posseduto, dall'altro lo abbatte in decadimento e distruzione. 
      Amore e morte - ci si consenta già qui uno sguardo al mito di 
      Ischtar-Tammuz e di Iside Osiride della  
      Thomas Mann non si è stancato di elaborare in 
      metamorfosi sempre nuove la discrepanza fra obbligo morale e bellezza 
      plastica, fra rigore etico e estetismo pseudo-platonico. Ne sono prova 
      innanzitutto il dramma Fiorenza e il racconto Gladius dei. 
      In ogni caso, il precetto della ragione di fare di Platone un dio 
      si dimostra pericoloso e unilaterale; frivolezza estetica e antico culto 
      della bellezza risvegliano forze contrarie che, da parte loro, assumono un 
      carattere troppo facilmente estremo: il culto di Platone, consueto nella 
      cerchia di Lorenzo de Medici chiama alla ribalta il movimento iconoclasta 
      di Savonarola, e la Madonna dipinta in stile pagano provoca la ribellione 
      del frate fedele, che, nelle strade di Monaco, annuncia l’imminenza del 
      giudizio divino: "Gladius dei super terram… cito et velociter." 
      Tonio Kröger, 
      nell'opera di Thomas Mann all’antinomia plastico-critica si lega una dura 
      antitesi fra la sobria analisi del carattere tedesco settentrionale e 
      l’apprezzamento della bellezza di tipo meridionale, priva di vincoli. 
      Tonio è il primo personaggio nell'opera dello scrittore che conosca questo 
      contrasto e sappia del pericolo di seduzione che comporta l'elemento 
      mediterraneo. Egli comprende la minaccia dell'ozio e della sonnolenta 
      indolenza: ecco la ragione dell'esodo dal mondo italiano alla Cesare 
      Borgia e del ritorno nel nebbioso regno danese di Amleto: 
      E Tonio Kröger si diresse verso il nord. Ancora più aspra 
      e quasi violentemente personale è la condanna del sud greco - già 
      individuato come pericolo seducente ne La morte a Venezia 
      - nella novella apparsa assai più tardi, nel 1930, dal titolo 
      Mario e il mago: "Certo, si tratta del Sud, del 
      tempo della classicità, del clima della fiorente cultura umana, del sole 
      di Omero, etc. Ma dopo un momento non posso trattenermi e vengo con 
      facilità indotto a ritenere che tutto ciò sia motivo di stordimento. Il 
      vuoto incandescente del cielo mi risulta, giorno dopo giorno, molesto, la 
      violenza dei colori, l'infinita naïveté e la 
      persistenza della luce risveglia sì sentimenti gioiosi e concede certo 
      serenità e sicura indipendenza dagli sbalzi e dagli umori del tempo; ma, 
      senza che ce ne si accorga all'inizio, esso lascia progressivamente 
      insoddisfatte necessità piuttosto profonde e complesse dell'anima nordica, 
      e ispira alla lunga qualcosa di simile al disprezzo."Al più tardi dal  
      dio dalle 
      gote infiammate, il quale spinge 
      attraverso lo spazio celeste il suo carro infuocato; e 
      ancora sembra che l'elogio appassionato abbia ceduto il posto a una 
      considerazione alquanto moderata, l'entusiastica febbre di bellezza 
      platonica ad un prosaico il sole di Omero eccetera; 
      cosicché ci si potrebbe domandare se la vecchia classica contrapposizione 
      fra sud e nord, misura e bellezza, critica e plasticità non sia stata già 
      da molto abbandonata dallo scrittore. Chi ponesse una tale domanda, 
      potrebbe avvalersi del passo molte volte citato del discorso tenuto a 
      Varsavia nel 1925 per il P.E.N. Club, dove Mann sottolinea come per il 
      pensiero e la cultura tedeschi il problema orientale-occidentale svolga 
      oggi lo stesso ruolo di quello meridionale-settentrionale un tempo - una 
      tesi che appare confermata in modo evidente dall'agone dialettico dei 
      signori Naphta e Settembrini ne La montagna incantata, 
      terminata un anno prima, nel 1924.Una più precisa osservazione ci insegna 
      per altro che la vecchia contraddizione fra nord e antichità classica, 
      così espressivamente interpretata sia ne La morte a 
      Venezia sia nel Tonio Kröger, 
      non solo non è scomparsa, ma – come potrebbe essere altrimenti nell’opera 
      di tutta una vita, che vive di norma di rimproveri, di analogie e di 
      citazioni segreti? - al contrario ravvivata potentemente sotto un nuovo 
      segno. Proprio il capitolo Neve ne 
      La montagna incantata mostra la solita antitesi nella più 
      scarna semplificazione immaginabile: alla contemplazione di un paesaggio 
      ideale meridionale e quasi georgiano corrisponde ora il brusco risveglio e 
      la partecipazione all'orribile pasto sanguinario nel tempio di Demetra e 
      Persefone. La baia del mare meridionale, mai vista, ma contemplata durante 
      un'anamnesi, si confonde in dimensioni incommensurabili e oltre 
      all'intelletto, fino a che, improvvisamente e inaspettatamente, ha inizio 
      nel mondo ciclopico di templi dorici la terribile scena del sacrificio 
      umano. L'interpretazione è la stessa della fine de La 
      morte a Venezia. In ogni caso la cortese e raffinata 
      comunità mediterranea viene sconvolta, e dietro di essa viene reso 
      visibile il mondo caotico e primitivo, simboleggiato dal nome del dio 
      ebbro, in tutta la sua primitività.Qui è scomparso l'accenno al  
      La montagna incantata 
      va al di là della precedente novella, poiché trasmette la convenzionale 
      antitesi nietzschiana della contraddizione occidente-oriente all'ambito 
      più esteso della cultura umana, che concretizza in due personalità 
      differenti, quella di un gesuita e quella di un letterato. L'antinomia non 
      risiede dunque solo più nel cuore di colui che osserva, ma è oggettivata 
      nel mondo contrapposto di chi è osservato. Anche Aschenbach parimenti ha 
      subito questa scissione senza che in conseguenza il significato 
      dell'elemento erotico ne fosse stato nel minimo ridotto.Senza dubbio 
      charitas, s'avvicina, spiritualizzata, a quella
      sympatheia che Mann, nel Pariser 
      Rechenschaft, chiamerà figlia di Eros e della ragione,
      piacere moralizzato, che porta anche il nome di Bene... 
      e con ciò egli allude alla possibilità che l'antitesi di bellezza e 
      spirito, piacere ed etica possa assai bene essere superata 
      nell'affermazione del bene. Nei dialoghi de La montagna 
      incantata è ancora difficile rintracciare questo – 
      predomina la dialettica platonica, e i motivi esposti ne 
      La morte a Venezia vengono esposti dal punto di vista del 
      giusto e dell'utile: l'estetismo appare ora – i dialoghi della cerchia 
      degli artisti di Monaco nel Doktor Faustus lo chiariranno - come 
      fratello della barbarie; ma anche bruttezza e terrore si combinano bene 
      come elementi anti-classici. E' scoppiata una gara in grande stile, in cui 
      ancora una volta, come ne La morte a Venezia, molto di antico 
      svolge il ruolo di padrino. Platone rimane protagonista, come nella 
      novella iniziale, anche se si parla di Aristotele o Virgilio; nuovamente 
      Mann cita il Fedro, ma ora allo scopo di 
      raccontare del personaggio mitico egiziano di Theut, l’inventore della 
      scrittura, e vero e proprio padrino del letterato. Ma questo Theut o Thot 
      è - e si vede come i motivi ritornino tutti quanti - non altri che Hermes, 
      il dio dei morti della novella, che funge anche là da giovane seduttore e 
      ispiratore di fascino divino. É Hermes, infatti, la figura centrale (anche 
      se invisibile) della Montagna incantata ... a volte scherzosamente 
      apostrofato come Mercurio, altre in veste di Psicopompo, altre ancora con 
      un travestimento orientale-ellenistica, chiamato Theut o Trismegistos, 
      come signore dello spirito e della cultura: non solo un dio dei morti, ma 
      anche un custode della vita, come in seguito, nella "Montagna incantata", 
      l'antichità appare soprattutto come un'epoca amante di vita e nemica di 
      morte, protettrice di ordine e salute - motivo per cui il signor 
      Settembrini, nella sua funzione di avvocato della vita, si serve 
      particolarmente volentieri di antiche citazioni, sentenze e mitologemi.Tuttavia la nozione di Eros sperimenta ora una 
      imprevista dilatazione, abbraccia ad un tempo voluttà e  
      Se ne La morte a Venezia Hermes era limitato 
      alla sua funzione ambivalente di dio dell'amore e di morte, così nella 
      Montagna incantata si presenta per la prima volta nella piena 
      efficacia delle sue apparizioni: "Là stava la morte avvolta in un azzurro 
      mantello, come un retore umanista; e se si fissava negli occhi con 
      attenzione il pedagogo dio delle lettere e l'amico degli uomini, si 
      scorgeva, al posto di lui, una maschera scimmiesca col segno della magia e 
      della notte sulla fronte". Anche la Montagna incantata, una "storia 
      ermetica" kat'exochèn, è il resoconto di una catabasi, anche qui esistono 
      viaggiatori e accompagnatori di morti, e Minosse e Radamante amministrano 
      la giustizia - nel complesso si tratta, dal punto di vista del signor 
      Settembrini, d'un unico grande Ade, d'un regno dei morti, in cui Hans 
      Castorp giunge con la ferrovia con tanta certezza quanto Aschenbach con i 
      vaporetti e le gondole. Che poi, da un punto di vista strettamente 
      geografico, si tratti di un'anabasi, non è di disturbo, perché la 
      constatazione di Joseph, secondo cui sopra e sotto ci sarebbero grandezze 
      del tutto variabili, sta già alla base de La montagna incantata. 
      Con ragione si è parlato, al fine di inserire il romanzo all'inizio della 
      tradizione narrativa europea che si ispira all'antichità, d'una moderna 
      Odissea, ed in verità si tratta proprio della discesa di Odisseo nel mondo 
      sotterraneo, delle sue visioni d'oltretomba, dei suoi colloqui con le 
      ombre senza sangue, che il poeta moderno varia e commenta con la 
      caratteristica ironia di stampo socratico a lui familiare. Certo anche gli 
      uomini della Montagna incantata sono privi di sangue e di ogni 
      segno vitale e vegetano lontano dal mondo reale della pianura "come esseri 
      sprofondati in un abisso". Anche nelle ariose altezze delle montagna 
      svizzera c'è bisogno, per riconoscersi, d'un Cicerone e di uno Psicopompo, 
      celati sotto maschere ed abiti di varia specie. E chi sarebbe più adatto a 
      questo che quel dio greco, la cui essenza consiste proprio nella 
      molteplicità e variabilità delle manifestazioni? 
      Lo incontriamo di nuovo - ora quasi capitolo dopo 
      capitolo e in sempre diverse forme - nel mondo mitico della Tetralogia. 
      Ma, prima dell'indagine sulle varie modalità di epifania del dio e del suo 
      umano imitatore, appare opportuno rivolgere il nostro pensiero, almeno 
      solo di passaggio, a due analisi teoriche, che appaiono concepite e 
      redatte come studio preparatorio e commentario in previsione del grande 
      monumento narrativo della Tetralogia. Si tratta innanzitutto del 
      Pariser Rechenschaft, del 1926, dove si sviluppa per la prima volta il 
      progetto narrativo concernente Joseph e si analizza la problematica 
      dell'elemento mitico, che ne sta alla base. Di nuovo, come già tanto 
      spesso, il poeta è stimolato a più profonde considerazioni da un'analisi - 
      questa volta basata sull'introduzione di Bäumler ad un'antologia di 
      scritti di Bachofen - di dionisiaco ed apollineo, di mondo primitivo 
      oscuramente mitico e chiara consapevolezza del mondo illuminato, di culto 
      romantico per il naturale, il popolare ed il terrigeno e interpretazione 
      classico-razionalistica del mito. La decisione a favore di uno dei due 
      estremi comporta poca fatica; essa cade a favore dell'interpretazione 
      classica e mira - già qui - a una umanizzazione e ad un'ironizzante 
      spiritualizzazione dell'accadimento mitico. Più precise spiegazioni dà il 
      discorso ufficiale Freud ed il futuro, in cui l'elemento mitico 
      stesso, analizzato in profondità e commentato dal punto di vista 
      psicologico, appare nella sua peculiarità. Quel che si rivela qui come 
      essenza dell'antichità è che gli manchi affatto il concetto moderno di 
      individualità: "L'antico ego e la sua coscienza di sé erano ben diverse 
      dalle nostre, meno esclusive, meno rigidamente circoscritte. Esso era 
      aperto anche alla dimensione del passato, e inglobava dal passato anche 
      molto di ciò che poteva riprodurre nel presente, e di ciò che, attraverso 
      di lui, ancora poteva esistere.". Carattere dell'antichità è dunque la 
      ripetibilità del passato, concepito come presente continuo, la capacità 
      della reincarnazione del mito nello "hic et nunc" di un istante festoso – 
      la citazione come strumento dell'iterazione. Nel momento in cui 
      l'individuo, in occasione di una festa, pensa ai suoi antenati, egli si 
      identifica con loro, si svincola dalla sua identità personale e diviene 
      tutt'uno con il suo destino, ora divenuto esemplare. L’istante perde il 
      carattere dell'"irripetibile e del momentaneo" e appare naturale e 
      familiare, poiché si ripete ora, pur esistendo già da sempre. Questa 
      attualizzazione del passato, evidenziata proprio dalla filologia classica 
      degli ultimi decenni, che attraverso la ripetizione conduce ad una nuova 
      creazione vitale, appare, secondo Thomas Mann, innanzitutto nella 
      celebrazione di un evento festivo: "La festa è l'eliminazione del tempo, è 
      un processo, un'azione solenne, che si attua secondo un archetipo 
      preconiato; ciò che vi accade non vi accade mai per la prima volta, ma 
      ritualmente e secondo il modello. Esso vince il presente e torna di nuovo, 
      proprio come le feste ritornano nel tempo e come le loro fasi e ore si 
      susseguono nel tempo dopo l’evento primigenio". 
      Queste tesi, sviluppate da Thomas Mann nel Pariser 
      Rechenschaft e nel discorso Freud e il futuro, sono state 
      chiarite soprattutto nell'esempio del vecchio Eliezer (che, mentre 
      racconta, si trasforma in ciò che racconta, e non ha quindi un "ego troppo 
      circoscritto"), e nell'ambito della festa in onore di Adonai. Joseph, 
      l'eroe del libro, è proprio un modello esemplare della "rappresentazione". 
      Attraverso il suo doppio "viaggio all'inferno" nel pozzo e verso il suo 
      esilio in Egitto, egli ripresenta alla lettera il destino di 
      Tammuz-Osiride-Adonai. Egli diviene un Dioniso-Zagreo smembrato, che 
      risorge come un dio beato in una nuova più perfetta forma. Nel senso 
      dell'identificazione mitica si spinge Joseph tanto in là, che egli, 
      l'imitatore, almeno secondo come lo vedevano gli altri, diventa dio 
      stesso: "Impersonare un dio, questo significa, secondo il modo di pensare 
      primitivo, essere anche un po' dei.". In Joseph, bello e intelligente, 
      dalle forme perfette ma non per questo meno dotato nello spirito, si 
      risolve l'antitesi che Thomas Mann aveva analizzato trent'anni prima nei
      Buddenbrook e nel Tonio Kröger. Ma contemporaneamente Joseph 
      supera anche la contraddizione fra apollineo e dionisiaco, poiché egli, a 
      differenza del suonatore di flauto Esaù, si sente legato nel contempo ad 
      entrambi gli dèi. Egli è il kalòskagathòs in senso greco, il bello dotato 
      nello spirito, al cui fascino multiforme e cangiante alla lunga nessuno 
      riesce a sfuggire ... un puro fratello di Hermes, copia ed immagine del 
      dio; fratello anche dell'altro Felix che si serve, al pari del mitico 
      servo imbroglione, di raggiri e maneggi da cavaliere d'industria. 
      Di nuovo, ma questa volta in modo palese, Hermes è la 
      figura dominante del libro. È l’accompagnatore di anime, che porta i morti 
      nella loro dimora. Quando Joseph, inviato dal padre a cercare i fratelli, 
      vaga per il deserto, incontra l’uomo sul campo – è proprio Hermes, in 
      spoglie mortali, ma a un punto tale che non può trattenersi dal rubare dal 
      carico dell’asino un cestino con della frutta secca e un altro con cipolle 
      arrostite e dal nasconderle nella sua bisaccia. Non è solo "messaggero, 
      guida e guardiano", questo Hermes, ma è anche un ladro matricolato, come 
      ancora una volta prescrive la tradizione… un tratto caratteristico di cui 
      riferisce in particolare l’inno omerico a Hermes, inno che è riprodotto in 
      tutti i suoi dettagli nel discorso magistrale (invero il punto più elevato 
      della tetralogia) tenuto da Amenhotep-Echnaton a Joseph, sbigottito e 
      semicosciente. Ma Hermes è ancora di più: non solo l’accompagnatore di 
      anime, che entra in gioco a buon diritto quando il giovane Joseph scende 
      nel "regno scimmiesco dei morti in Egitto", non solo maestro di 
      stratagemmi e truffe ladresche, ma anche il demone con il capo di scimmia 
      della Montagna incantata, quel babbuino con la falce lunare sulla 
      fronte, rimproverato così duramente dal Signor Naphta, che ora trasformato 
      in sciacallo, come Anup, incontra il sognante Jaakob e, sotto forma 
      dell’Hermes lisippeo di Napoli, gli fa notare che egli avrebbe perso di 
      nuovo la sua testa per elevarsi fino a diventare un dio in forma umana e 
      dio dei morti, ma anche signore dell’anima e della cultura. Proprio questo 
      è il metier più consono ad Hermes, celebrato in modo così 
      entusiastico dal Signor Settembrini nella Montagna incantata: come 
      Thot e Trismegistos, insegnare le arti all’uomo e mostragli la luce dello 
      spirito e dell’etica della ragione. Ma non basta questa metamorfosi – dove 
      regnano scrittura e lettura, là anche la musica è tenuta in grande onore e 
      considerazione, e anche in questo ambito Hermes è imbattibile… egli, lo 
      scopritore dei suoni, cui il guscio della tartaruga funse da cassa 
      armonica. Come dio dell’etica e della cortesia spirituale è in fondo chi 
      guida il commercio, Mercurio, protettore di creditori e banchieri. Il 
      giovane Joseph comincia il suo cammino nel suo nome; il segno del dio Thot 
      sta sopra la descrizione del suo carattere eletto e, decenni dopo, poco 
      prima del momento culminante della sua carriera, immediatamente dopo 
      l’esilio egiziano, sente in modo significativo il richiamo delle stelle 
      della sua infanzia, dopo il discorso rivoltogli da Echnaton. La clemenza 
      del faraone riconosce lui, che era stato salvato tante volte dai doni di 
      Thot da miseria e indigenza, come un parente nello spirito: "Io vedo… che 
      tu ti intendi delle arti di Thot e sei uno scriba. Io penso che questo sia 
      legato alla dignità dell’Io, ove si avvera il modello vincolante della 
      profondità." 
      Come inviato di Thot-Trismegistos, Joseph padroneggia 
      l’arte di leggere, scrivere e far di conto; come servitore di Hermes egli 
      esercita l’arte retorica, attraente ma ingannevole, e conosce l’¥rmaÝon, 
      la fortunata scoperta di un caso fortuito. Facendo propri i doni del dio e 
      ripetendo nel presente l’antica situazione mitica, egli innalza il piano 
      di comparazione e diventa egli stesso dio – un grande banchiere alla corte 
      del faraone, un taumaturgo furbo e scaltro, un indovino onesto e un capo 
      che conosce sempre misura e compensazione e che aspira a livellare gli 
      estremi in una media ordinata. 
      Non a caso Joseph, come servitore di una divinità 
      lunare, chiama proprio Selene la sua amata signora e padrona. Distante in 
      egual misura da Helios, elemento maschile, e da Gaia, elemento femminile, 
      ha piantato la sua tenda ai confini fra vita e morte, nel regno lunare, là 
      dove elemento femminile e maschile, grazie e spirito, si collegano in un 
      attraente scambio reciproco. Astuzia e umorismo, bellezza e charme 
      sono le virtù su cui confida lungo il suo cammino ermetico, perché proprio 
      spirito e umorismo sono le funzioni di Hermes, gli elementi più 
      appropriati per essere guide, guardiani e messaggeri in un mondo dove 
      regni la più alta civiltà: "Noi parliamo di arguzia, perché questo 
      principio ha una sua collocazione nel piccolo cosmo della nostra storia e 
      presto ci si rese conto che l’arguzia ha la natura del messaggero che va 
      da una parte all’altra e anche dell’abile incaricato d’affari che media 
      fra sfere ed influssi contrapposti." 
      Nella figura di Joseph-Hermes, di quell’imitatore 
      astuto e imbroglione, che si appropria così fortemente dei caratteri del 
      suo dio al punto da non poter più discernere con precisione, alla fine, i 
      confini della sua individualità e tanto meno dove termini il divino e dove 
      abbia inizio l’umano, le antitesi così reciprocamente avverse – "regno di 
      Apollo qui – regno di Dioniso là" – vengono fuse per la prima volta in una 
      sintesi più alta. Dove regna Joseph, rimane sconosciuto ciò che è 
      malvagio, e i demoni, come Esaù che suona il flauto o Mut-em-enet, 
      raffigurata come baccante, si aggirano solamente in lontananza. 
      Questo però non significa che l’antica contraddizione, 
      citata così energicamente nel discorso su Umanesimo ed educazione 
      umanistica e nella conferenza sulla filosofia di Nietzsche, non 
      continui ad esistere nell’opera del poeta. Al contrario, ciò che appariva 
      già superato si inasprisce di nuovo in un antitesi assai tagliente nel 
      Doktor Faustus. Una chiara coscienza, una rettitudine sobria e 
      un’enfasi umanistica si dimostrano insufficienti per distruggere l’intima 
      unione di grossolanità ed estetismo. Di nuovo, come ne La morte a 
      Venezia, ne La montagna incantata e nella Tetralogia di 
      Joseph diventiamo testimoni di una catabasi erculea; ancora una volta 
      incontriamo lo psicompompo, ma questa volta non nelle vesti 
      dell’amichevole dio lunare e di accompagnatore delle anime, bensì sotto la 
      maschera del demonio cristiano e nelle vesti del diabolico spirito 
      ribelle. Viene ora alla luce in modo più incisivo rispetto alle opere 
      precedenti e più intenso rispetto a Morte a Venezia l’elemento demonico di 
      un’algida bellezza, cui aveva già fatto riferimento Riemer, un antenato di 
      Zeitblom, in occasione della sua analisi di Goethe. Di nuovo freddezza, 
      disciplina e bellezza legata alla morte si uniscono in una trinità 
      diabolica, ma ora è necessario seguire non reincarnazione platonica, non 
      Tadzio-Fedro – anche Aschenbach si vota al bello – non al fanciullo 
      divino, ma al diavolo in persona. In una citazione che ripete il motivo 
      dell’anello dal colloquio di Echnaton, traspare solo debolmente, 
      all’inizio dell’inno ad Apollo di Callimaco, un’immagine rovesciata, ma 
      anche in essa prevale il timore all’apparire del dio dalla furia 
      travolgente. In mezzo a terrore e chaos la posizione del vecchio umanesimo 
      appare molto fragile. Il pathos anticheggiante di Settembrini, che crede 
      al progresso, è diventato la stanca rassegnazione di un vecchio filologo, 
      che riconosce le forze demoniche non solo nel patto fra estetica e 
      teologia militante, ma anche nel proprio campo, in uno spazio ristretto e 
      circoscritto dell’educazione umanistica: perfino la sobria coscienza deve 
      sempre difendersi, di nuovo, dal dio straniero e sottomettere le potenze 
      ctonie, riportandole ad un’ordinata armonia: "… quando io rivolgevo il mio 
      sguardo dall’Acropoli verso la strada sacra, su cui avanzavano i mystai, 
      adorni di bende color zafferano e il nome di Iacco sulle labbra, e poi, 
      quando stavo sul luogo stesso dell’iniziazione, nel territorio di Eubuleo, 
      sull’orlo del crepaccio plutonico a strapiombo sulla roccia. Allora io 
      provai, consapevolmente, la pienezza del gusto di vivere, quale si esprime 
      nella devozione iniziatica della grecità olimpica si esprime davanti alle 
      divinità degli abissi, e spesso ho spiegato dalla cattedra ai miei 
      maturandi che la cultura consista nell’inserimento pio e ordinatore, direi 
      quasi pacificatore, del mostro notturno nel culto degli dei." Qui, con 
      queste parole, è Thomas Mann stesso a parlare, perché le frasi che mette 
      in bocca a Serenus Zeitblom ripetono, in libera parafrasi, le parole che 
      lo scrittore cinquantenne scrisse su Atene, nella sua relazione sul 
      viaggio nel 1925. Anch’egli, in un viaggio attraverso il Mediterraneo: 
      provenendo dall’Egitto e tornando in Italia, si ricorda del suo sguardo 
      alla via sacra e della "eroica terra di giovinezza" della civiltà europea, 
      vietata ai barbari. In questo contesto, riconoscendo egli "che è davvero 
      figlio di Europa, solo chi, nelle sue ore migliori, sa fare riferimento 
      nel suo cuore alla Grecia", fra le altre cose egli descrive, 
      nell’enumerare i monumenti osservati, anche il modo di lavorare di quel 
      "Fidia, oh Fidia", che univa un grande talento ad altrettanto grandi 
      debolezze umane e che morì in prigione come ladro di materiale… una frase 
      incidentale, gettata quasi indolentemente sulla carta, eppure una 
      citazione dal frammento di Krull del 1911, che avrebbe assunto una 
      grande importanza per i progressi più recenti sull’opera incompiuta. Anche 
      Krull, come Fidia, è sì un ladro, anch’egli – come potrebbe essere 
      altrimenti?– è scultore e pittore, anche se opera in un altro campo e 
      abita in un altro luogo, al confine fra Logos ed Eros: un maestro ben 
      dotato nella parola come Tonio, Settembrini o Imma Spoelmann, un grazioso 
      amorino come Tadzio, un servitore e imitatore imbroglione di Hermes, come 
      quel biblico Joseph, cui è così straordinariamente simile, in molti punti, 
      e le cui attitudini mitiche egli traspone nel parodistico. Anch’egli, 
      Krull, intraprende una catabasi – pensavamo di esserne certi e di poter 
      confidare nella rappresentazione della permanenza di Fidia in carcere. 
      Ora, che il Krull rimarrà per sempre un frammento, dobbiamo 
      accontentarci dell’introduzione, ingenua rispetto all’altra, dell’incontro 
      ermetico, a Francoforte, con le "civette". Hermes, però, il dio dei ladri, 
      sotto forma di bel fanciullo divino, si accinge già a tessere la sua tela 
      e quando l’eroe, diversamente da Joseph, così ubbidiente al suo 
      Thot-Trismegistos, non si rende ben conto dei legami con il suo ritratto 
      vivente divino, e deve essere informato da una sua amante, Madame Houpflé, 
      delle sue gambe "simili a quelle di Hermes" e quindi della sua affinità 
      con il suo patrono, allora non si può dubitare del significato che il dio 
      furbo ha nell’ultima opera del poeta. Proprio Felix, che, come figura 
      autenticamente mitica, come Joseph, non ha "un ego chiaramente delimitato" 
      ed è affascinato dal pensiero della possibilità di scambiare tutte le 
      cose, dovrà certamente lasciarsi raffigurare, come nessun altro 
      personaggio, come un imitatore (anche se involontario) di qualcosa che 
      presenta molte facce. E come potrebbe non accadere che lui, dotato di ali, 
      come Joseph saggio e bello allo stesso tempo, fosse rapito dalla grazia di 
      quel dio, che è in certo qual modo la personificazione dell’eleganza e, 
      già grazie al suo aspetto, richiama immediatamente alla mente armonia e 
      giusto accordo? Sì, non è alla fine egli stesso, in tutto il suo splendore 
      luccicante (e quindi un po’ sospetto) qualcosa come un "nevrotico Hermes"? 
      In Tadzio, Joseph e Felix Hermes incarna la perfezione 
      della figura umana, la forma per sé e in sé, unita a grazia e spirito. 
      Alla armonia greca del suo corpo, "la forma come pensiero divino", 
      corrispondono la prontezza della sua mente, la furbizia del suo spirito 
      versatile. Non vi è alcun dubbio che si sia creduto, a buon diritto, che 
      la definizione di Hermes alluda ad un autoritratto nascosto del poeta: "… 
      ordinatore e capo, che governa il mondo fra le tortuosità, sorridente 
      mentre si volge indietro con un bastone sollevato … insomma un mago 
      benevolo con tutte le sue astuzie" – è palese, poiché il bastone del dio 
      dei morti rappresenta anche quello del rapsodo e l’epiteto "mago" fa 
      riferimento ad una affinità assai personale desunta dalla sfera privata. 
      Nei dialoghi fra Echnaton e Joseph, in quel confronto 
      dialettico che si svolge nella atmosfera serena del culto della luce 
      tardoplatonico e gnostico e nella conversazione fra Krull e il re 
      portoghese Carlos I, un tardo discendente – meno importante – di Amenhotep 
      IV, la forma preferita del poeta assume i suoi contorni più plastici. 
      Basandosi sull’esempio della bellezza problematica e sfruttando il motivo 
      dell’Eros e della catabasi, Thomas Mann delinea i tratti del dio. 
      Catabasi, bellezza, Eros e Hermes sono i consueti riferimenti stereotipati 
      all’antichità, contenuti all’interno delle opere di transizione, … cosa 
      per cui bisogna tenere nel dovuto conto che Eros (in senso platonico) ed 
      Hermes, in quanto entrambi mediatori fra l’uomo e dio, in grado di unire 
      il mondo terreno con l’aldilà, e amministratori di reciproci scambi 
      fruttuosi, sono – d’ora in poi – vicendevolmente imparentati e figurano, 
      nel mondo di Thomas Mann, solo come differenti manifestazioni di un 
      medesimo fenomeno, cosicché Hermes, il furbo e l’accompagnatore di anime, 
      proprio come Eros, risveglia quella "grande gioia", che infonde sempre 
      nuova vita alla morte. Sembra quasi che il poeta riassuma le sue opinioni, 
      conoscenze ed esperienze del mondo greco nel ritratto di quel dio 
      multiforme e ironicamente sereno, verso il quale lui, il socratico, ha una 
      particolare inclinazione dai tempi de La morte a Venezia fino alle
      Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull. Non a caso 
      l’espressione "elegante e spirituale", citata nel resoconto del viaggio 
      del 1925, quando osserva le korai dell’Acropoli, è costantemente 
      connessa alla caratterizzazione del suo amato dio. Hermes: si tratta, 
      parimenti, dell’incarnazione del "giovanile-europeo", l’espressione 
      simbolica di un "sentimento europeo di comune appartenenza", del quale il 
      poeta tratta nell’analisi delle tradizioni antiche sopravvissute, 
      contenuta all’interno del trattato Educazione umanistica ed Umanesimo. 
      Hermes, il dispensatore di vita e il messaggero di morte, l’astuto e 
      l’arguto, che partecipa dell’erotico, del versatile, che possiede costanza 
      e scaltrezza, appare così come un’allegoria di quell’immagine dell’uomo, 
      "che spesso è sprofondata, ma che sempre è riuscita a riemergere alla luce 
      del sole."   
      
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