Situazione militare nel luglio '43
      Lo sbarco in Sicilia del 10 luglio esauriva le scarse possibilità che restavano
      all'Italia di vincere la guerra, anche se in realtà la situazione era per l'Asse già
      gravemente compromessa da diverso tempo: la sconfitta di El Alamein nel novembre del 1942,
      contemporanea allo sbarco delle forze americane in Marocco e Algeria, aveva portato alla
      definitiva sconfitta in Africa, e con la perdita dell'Africa, si apriva la concreta
      possibilità, per le forze alleate, di aprire un fronte diretto contro l'Italia, l'alleato
      debole della Germania.
      Inoltre, ad aggravare la già pericolante situazione sul fronte meridionale, si
      aggiungevano le catastrofiche notizie provenienti dal fronte est, con la sconfitta di
      Stalingrado e la distruzione della sesta armata tedesca; la tragedia di Stalingrado
      colpiva l'Italia anche in modo più diretto, dal momento che le truppe dell'ARMIR, il
      corpo di spedizione voluto dal Duce per affiancare i tedeschi in quella che era chiamata
      "la crociata contro il Bolscevismo" e doveva essere una guerra breve e
      vittoriosa, avevano dovuto sopportare delle perdite addirittura incredibili, con
      percentuali di vittime oscillanti tra il 50% e il 60% e più di 105.000 tra morti, feriti
      e congelati. Sommando a queste cifre le 25 divisioni andate perdute in Nord Africa e le 36
      divisioni dislocate fuori dalla penisola, in massima parte in Jugoslavia e Grecia, si vede
      facilmente come il comando supremo potesse contare, con un'invasione che si annunciava
      imminente, di forze assolutamente insufficienti per difendere il Paese. E' sullo sfondo di
      questa situazione militare, dunque, che si collocano i fondamentali avvenimenti del
      luglio-settembre del 1943.
      
      La caduta di Mussolini: 24/25 luglio '43
      Una situazione militare ormai allo sfascio, unita alle posizioni ormai contrarie al Duce
      del Fascismo della Casa Savoia, trovò uno sbocco naturale nel Gran consiglio fascista del
      24 luglio; Mussolini pare non abbia avuto alcun sentore della vera e propria cospirazione
      che Sua Maestà Vittorio Emanuele III stava ordendo ai suoi danni, come è testimoniato ad
      esempio da un incontro avuto il 23 luglio col maresciallo Kesserling (il comandante
      supremo tedesco in Italia), incontro in cui il Duce disse tranquillamente al suo
      interlocutore di avere appena parlato con Grandi, e che questi "gli era
      fedelmente devoto".
      Mussolini dunque si recò al Gran consiglio senza sospettare nulla, anche perché tale
      organo (originariamente solo un organo di partito e divenuto organo costituzionale dello
      Stato nel 1928) era stato soltanto una sorta di "cassa di risonanza" delle
      decisioni del Duce, sempre pronto ad avallare le sue decisioni senza utilizzare il suo
      (esistente) peso istituzionale; quel giorno però il Gran consiglio si trasformò nello
      strumento legale in cui si coagularono le manovre della monarchia per cercare di salvare
      se stessa, unitamente agli interessi di chi voleva semplicemente un "fascismo senza
      Mussolini".
      Fu proprio il re, che aveva un ventennio prima voluto accettare il Duce come primo
      ministro, a decidere che era il momento, per salvare la monarchia, di sacrificarlo: dal
      gennaio 1943 iniziano così le "grandi manovre" del sovrano, di cui fu messa al
      corrente solo una piccola cerchia di fedelissimi (anzitutto il ministro della Real Casa
      duca Acquarone, il capo di Stato maggiore generale Ambrosio, e poi il generale Castellano,
      futuro plenipotenziario italiano nelle trattative con gli alleati), che trovarono in
      Grandi e in Ciano (il genero del Duce) gli alleati nel Partito di cui avevano bisogno,
      utilizzandoli per i propri fini e probabilmente senza che questi si accorgessero del vero
      scopo cui servivano. Senza che il Duce lo sapesse, il complotto era ormai organizzato
      quando alle ore 17 del 24 luglio egli entrava nella Sala del Pappagallo, luogo delle
      riunioni del Consiglio.
      
      
      Purtroppo non esiste alcun verbale né alcuna ricostruzione
      univoca della riunione del 24/25 luglio, e dobbiamo affidarci a diversi racconti di parte:
      dopo una esposizione di Mussolini sulla situazione in Sicilia, in cui il Duce scaricò la
      colpa della situazione sul maresciallo Badoglio (ex capo di Stato maggiore peraltro
      silurato più di un anno prima) e ripeté le promesse fattegli da Hitler di un soccorso
      militare attivo (promesse alle quali, per passate esperienze, nessuno ormai, escluso lui,
      credeva più), vi furono diversi interventi più o meno diretti di Ciano, Bottai e De
      Bono, oltre che di Grandi "l'uomo del re", che, puntando l'indice contro il
      Duce, disse "fra le molti frasi vacue o ridicole che hai fatto scrivere sui muri
      di tutta Italia, ce n'è una che hai pronunciato dal balcone di Palazzo Chigi nel '24:
      "Periscano le fazioni, perisca anche la nostra, purché viva la nazione". E'
      giunto il momento di far perire la fazione". A questo punto Mussolini dichiarò
      chiusa la discussione e mise ai voti, per appello nominale, l'ordine del giorno Grandi,
      che era stato firmato da 18 dei 28 membri del Gran Consiglio presenti; il nocciolo della
      proposta Grandi era la richiesta per "l'immediato ripristino di tute le funzioni
      statali" e l'invito al Duce di pregare il re "affinché egli voglia, per
      l'onore e la salvezza della patria, assumere con l'effettivo comando delle forze armate di
      terra, di mare e dell'aria, secondo l'articolo 5 dello Statuto del Regno, quelle supreme
      iniziative di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono": al di
      là del contorto linguaggio politico, appariva evidente che fra le supreme iniziative del
      re, se c'era stata quella della guerra, poteva esserci anche quella della pace.
      Tale mozione ottenne 19 voti su 28 e venne approvata ormai alle 3 di mattina del 25
      luglio; pare che Mussolini, terreo, si sia alzato dalla poltrona a fatica ed abbia detto
      lentamente: "Sta bene. Mi pare che basti. Possiamo andare. Voi avete provocato la
      crisi del regime. La seduta è tolta". Vale la pena di notare che il contenuto
      della mozione era già noto a Mussolini, ed aveva anche una sua cauta approvazione, anche
      se solo limitata alla perdita del comando supremo affidatogli dal re nel 1940.
      E questo atteggiamento ci aiuta anche a spiegare perché il Duce accettò di recarsi dal
      re la mattina del 25 luglio (dopo aver telefonato a Claretta Petacci dicendole di mettersi
      al riparo finché c'era tempo), malgrado sua moglie Rachele avesse cercato di dissuaderlo,
      dicendogli (con un buon senso molto contadino) "non andare dal re, non fidarti:
      il re è il re, e se gli converrà ti getterà a mare".
      
        
          |  La testa di una statua del Duce abbattuta dalla folla
          dopo la caduta del
 suo governo: un'efficace metafora di quei giorni
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      Mussolini invece fece il suo ingresso a Villa Savoia alle 17,
      per il consueto colloquio settimanale con il re; egli non sapeva che già in quel momento
      la sua scorta era sotto controllo, e duecento carabinieri circondavano l'edificio, mentre
      un'ambulanza della Croce Rossa era in attesa di portarlo via prigioniero. Il re si rivolse
      al suo ormai ex primo ministro con parole mozze, dicendogli (il racconto è qui
      dell'aiutante del re Puntoni, che ascoltava il colloquio dietro l'uscio, pronto ad
      intervenire, per ordine dello stesso sovrano): "Caro Duce, le cose non vanno
      più, l'Italia è "in tocchi". L'esercito è moralmente a terra, gli alpini
      cantano una canzone nella quale dicono che non vogliono più fare la guerra per conto di
      Mussolini", e ripetendo in dialetto piemontese le parole della canzone. Sua
      Maestà, dapprima esitante poi via via più duro man mano che vedeva l'altro cedere,
      rinfacciò al suo ex primo ministro la condotta della guerra, e tutte le umiliazioni
      piccole e grandi che la Corona aveva dovuto subire; Mussolini allora parlò della riunione
      del Gran Consiglio e, citando gli articoli di legge, disse che il voto non aveva alcun
      valore deliberativo.
      
      
      
        
          |  Un quotidiano del 26 luglio '43 che documenta la
          caduta del
 governo Mussolini
 | 
      
      Il re, gelidamente, rispose che per lui era invece indice
      della volontà del Paese e che, per conto suo, aveva già provveduto a sostituirlo col
      maresciallo Badoglio: queste parole colpirono il Duce in pieno, e Vittorio Emanuele
      proseguì acidamente "il voto del Gran Consiglio è tremendo: 19 voti su 28 per
      l'ordine del giorno Grandi: fra di essi quattro Collari dell'Annunziata. In questo momento
      voi siete l'uomo più odiato d'Italia". Il Duce mormorò "Allora è
      tutto finito?". Silenzio. "Allora è tutto finito?" ripeté,
      e aggiunse dopo una pausa "E che ne sarà di me e della mia famiglia?".
      Il re riprese: "Oggi voi non potete più contare su di un solo amico. Uno solo vi
      è rimasto, io. Per questo vi dico che non dovete avere preoccupazioni per la vostra
      incolumità personale che farò proteggere". Erano le 17.20 quando il re
      riaccompagnò Mussolini alla soglia della villa, e chiese "Dov'è l'auto del
      presidente?", ritirandosi. Il Duce scese i sette gradini della scalinata, ma gli
      venne incontro il capitano dei carabinieri Viglieri (fucilato poi alle Fosse Ardeatine),
      che gli disse "Eccellenza, vi preghiamo di seguirci per sottrarvi ad eventuali
      violenze della folla", e gli indicò l'ambulanza della Croce Rossa. "Andiamo,
      non ce n'è bisogno" mormorò Mussolini. "Eccellenza - replicò
      Viglieri - io ho un ordine da rispettare". Così il Duce venne condotto,
      praticamente prigioniero, alla caserma della Legione allievi carabinieri di via Legnano,
      mentre la regina Elena si doleva per questo arresto compiuto sulla porta della casa del
      re, dicendo "Potevano arrestarlo quando e dove volevano non qui. Qui Mussolini
      era nostro ospite, si sono violate le regole dell'ospitalità. Non è bello questo".
      Così il tramonto di quel 25 luglio il re vide realizzarsi il
      suo secondo colpo di Stato (il primo risaliva al 1915 quando, scavalcando il Parlamento,
      aveva deciso segretamente la guerra a fianco dell'Intesa, violando i patti con la Germania
      e l'impero Austro-ungarico), volto al fine di non abbattere il Fascismo di colpo, ma
      modificarlo cambiandogli gli aspetti che si erano dimostrati dannosi per il Paese: il
      Fascismo, dunque, al re piaceva, ma voleva adattarlo alla sua visione conservatrice,
      sensibile solo in apparenza allo spirito dello Statuto albertino. Questo spiega come mai
      non volle accettare il consiglio di nominare presidente del Consiglio il generale
      Caviglia, ottimo militare e mai stato fascista, né ordinò la convocazione del Parlamento
      né l'immediato distacco dalla Germania, e spiega anche perché, quando Badoglio andò,
      uno o due giorni dopo, a proporgli la lista dei ministri, fu pronto ad obiettare: "Oh
      no no! Nessuno di questi signori; lei deve fare un governo di funzionari, di tecnici"
      (che furono poi sette militari, un ex prefetto, tre alti burocrati e cinque direttori
      generali di altrettanti ministeri): insomma, un governo di facciata, per coprire i veri
      gestori politici del colpo di Stato, e far rimanere il potere nelle mani di una sorta di
      triumvirato, formato da lui stesso, da Acquarone e da Ambrosio, il cui obiettivo
      fondamentale era la salvezza della dinastia e la cui struttura portante doveva essere
      l'esercito. Su tutta la politica governativa dei quarantacinque giorni dominò infatti la
      salvaguardia dell'ordine pubblico, esasperata e violenta, affidata alle forze armate, che
      portò anche a repressioni sanguinose ed immotivate.
      
        
          |  Un manifesto dei nemici di Badoglio
 | 
      
      Per la facciata, il Governo Badoglio sciolse le organizzazioni
      fasciste, eliminò il Tribunale speciale, arrestò parecchi gerarchi (scarcerandoli poi
      entro breve, e lasciando fuggire Farinacci in Germania), annullò la Carta della scuola e
      la Carta del lavoro, revocò le sanzioni disciplinari inflitte agli studenti per cause
      politiche, mandò a spasso i consiglieri nazionali della Camera, e persino abolì il ruolo
      di "caporale d'onore della milizia", il fascio littorio sui biglietti di banca,
      il saluto romano nelle forze armate, le leggi contro il celibato, e trovò anche il tempo
      di pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale il decreto che radiava dall'Ordine della
      Corona d'Italia "il signor Carlotto Giuseppe fu Giacomo".
      Tuttavia, in questa girandola di disposizioni, evitò di affrontare le questioni
      fondamentali quali Parlamento, partiti e sindacati, ed incaricando il Guardasigilli di
      "eliminare dal Codice i tratti caratteristici dell'ideologia fascista"
      dimenticò il tratto peggiore e più ignobile, quello razzista, sicché non vennero
      dichiarati nulli i cinque Decreti legge, le quattro Leggi e i sei Articoli introdotti nel
      codice civile nel 1938 in cui si compendiava la legge razziale, e questa
      "dimenticanza" peserà in modo non lieve sullo sterminio di 7642 ebrei italiani
      nei lager tedeschi.
      Posto a capo di un governo "da stato d'assedio", Badoglio si assunse come
      compito principale quello di concludere l'armistizio, ma, ancora una volta, secondo i
      disegni reconditi del re, tentando cioè di tenere il piede in tre scarpe, italiana
      tedesca ed alleata: gli emissari di Badoglio erano già al lavoro a Lisbona e a Tangeri,
      quando in Italia il ministro Guariglia, incontrando il diffidente Ribbentrop (il ministro
      degli esteri tedesco), gli negava indignato che vi fossero trattative in corso con gli
      anglo-americani, e nel contempo Senise (il Capo della polizia) invitava i questori a
      procedere "con la massima energia e prontezza" contro chi metteva in
      giro "notizie prive di fondamento quali quelle del suicidio del Führer, della
      avvenuta firma dell'armistizio et simili".
      Mussolini, che era stato prima relegato a Ponza nella casa già occupata dal prigioniero
      abissino ras Immiru', e poi all'Isola della Maddalena, avrebbe forse potuto dare qualche
      consiglio a Badoglio, dato che già Ciano (nel '42) aveva intrapreso un sondaggio con
      emissari inglesi per un eventuale sganciamento dall'Asse.
      Comunque era ben chiaro a tutti, ed anche ad Hitler, che l'uscita dell'Italia dalla guerra
      fosse imminente: il Führer infatti rifiutò l'invito ad incontrarsi col re, anche se
      Badoglio già il 25 luglio gli aveva telegrafato parte del suo discorso alla radio, in cui
      si proclamava "[...] la guerra per noi continua nello spirito dell'alleanza".
      Naturalmente Hitler non si era fatto ingannare neanche per un istante dalle parole
      italiane, cogliendo subito il significato dell'avvenimento: la sera stessa dell'arresto di
      Mussolini così esclamava: "Quella gente è ben costretta ad agire così, perché
      si tratta di un tradimento. Ma anche noi dal canto nostro continueremo a fare lo stesso
      gioco, preparando ogni cosa per mettere mano, con la rapidità del fulmine, su tutta
      quella cricca ed imprigionare l'intera banda. Manderò qualcuno laggiù per dare l'ordine
      al comandante della terza divisione granatieri motorizzati di penetrare in Roma, senza
      tante cerimonie, di arrestare immediatamente il re, tutti quanti, soprattutto di arrestare
      subito il principe ereditario e di impadronirsi di quella gentaglia, Badoglio in testa con
      la sua cricca. Vedrete allora che si sgonfieranno fino al midollo e nel giro di due o tre
      giorni ci sarà di nuovo un rovesciamento della situazione".
      La doppiezza del comportamento italiano è ben dimostrata dal racconto che lo stesso
      ministro Guariglia fa del suo incontro con Ribbentrop e Keitel: "Infine
      Ribbentrop scoperse le sue batterie, e mi chiese solennemente se gli potevo dare la mia
      parola che il governo italiano non stava trattando con gli alleati. Un solo istante di
      esitazione avrebbe potuto compromettere gravemente quanto avevo edificato in due ore. Per
      fortuna non fu così, e gli risposi subito, dichiarando di poter dare la mia parola; ma
      confesso di aver sentito a lungo nella mia coscienza il peso di quella menzogna, sebbene
      tentassi di attenuarlo con la riserva mentale che a Lisbona, si trattava soltanto di
      un'apertura da parte nostra. Ad ogni modo la mia coscienza è scaricata dall'antico
      adagio: salus Reipublicae suprema lex". Nelle loro memorie Rommel e Kesserling
      si sono espressi in termini duri sul comportamento dell'alleato, mentre a distanza di
      tempo il generale von Senger, il difensore di Cassino, esprime con più serenità la sua
      opinione dicendo che "storicamente, e non dal punto di vista dell'alleato deluso,
      Vittorio Emanuele III, liquidando in tempo la guerra, ha reso al suo popolo un servizio
      altrettanto grande di quello reso durante la prima guerra mondiale dopo Caporetto, con la
      sua volontà di resistere".
      
      
      In realtà, dal punto di vista storico e dopo cinquant'anni e
      più dai fatti, il punto "dolente" non fu tanto la decisione saggia e non più
      rinviabile di far uscire l'Italia da un conflitto ormai chiaramente perduto e che
      rischiava di trascinarla alla più completa distruzione, né, in una certa misura, la
      sottile doppiezza dei ministri e dei plenipotenziari italiani nei confronti dell'alleato
      tedesco, quanto piuttosto la ineliminabile sensazione che Casa Savoia abbia, in quei
      giorni fatidici, pensato più a se stessa che al Paese: il re, in luogo di presentarsi
      francamente da Ribbentrop o da Kesserling, spiegando loro l'impossibilità italiana di
      proseguire la guerra e affrontando anche personalmente le conseguenze, tese anzitutto a
      salvare se stesso e i suoi famigliari, cercando a posteriori di spacciare tale salvezza
      per quella del Paese. Le conseguenze di questo comportamento sono ben evidenti nei fatti
      immediatamente successivi all'annuncio dell'armistizio, quando l'esercito, lasciato senza
      ordini chiari, fu praticamente disarmato ed in parte deportato in Germania, quasi senza
      resistenza, e non certo per mancanza di coraggio (emblematico è l'episodio di Cefalonia),
      quanto perché abbandonato del tutto a se stesso. Se dunque il re ebbe il merito di
      sganciare l'Italia dal patto con la Germania, è altrettanto innegabile che fu sua,
      anzitutto, buona parte della colpa di tutti i tremendi fatti accaduti in seguito
      all'armistizio ed alla sua fuga.
      
      
      L'armistizio dell'8 settembre e l'inizio della guerra
      civile
      Le trattative segrete intraprese dagli emissari di Badoglio portarono in breve ad un
      notevole avvicinamento delle posizioni italiane ed alleate; in particolare il comandante
      supremo alleato, generale Eisenhower, ricorda che il problema, nell'armistizio con
      l'Italia, non furono tanto le condizioni imposte dai vincitori (condizioni peraltro dure,
      in quanto la resa doveva essere "incondizionata"), quanto un problema ben
      diverso: "Prima di deporre le armi infatti - scrive Eisenhower - gli
      italiani volevano avere la certezza che una potente formazione alleata sarebbe sbarcata il
      giorno stesso della loro resa e prima dell'annuncio dell'armistizio, per proteggere il
      governo e la città dalla rappresaglia tedesca. Volevano quindi conoscere i dettagli dei
      nostri piani. Noi non volevamo rivelarli, perché dovevamo tener conto di un tradimento
      sempre possibile. Inoltre era assolutamente invadere l'Italia con gli effettivi auspicati
      dagli italiani - (la bellezza di 15 divisioni!) - per la semplicissima ragione
      che non disponevamo, in quel settore, di contingenti sufficienti ed ancor meno delle navi
      necessarie per il loro trasporto". Fu solo dunque dopo che gli alleati ebbero
      assicurato uno sbarco contemporaneo all'annuncio dell'armistizio (l'operazione Avalanche,
      il più sanguinoso sbarco dell'offensiva alleata, quello a Salerno), che Badoglio diede la
      sua approvazione alla firma dell'armistizio, che fu fatta a Cassibile il 3 settembre dal
      plenipotenziario generale Castellano.
      
        
          |  La storica foto della firma dell'armistizio tra Italia
          ed alleati: in abito
 borghese il generale Castellano, plenipotenziario italiano
 | 
      
      Sorse a quel punto una grave ed inaspettata difficoltà, che
      spiega l'inaspettato precipitare degli eventi in quei giorni di settembre: il governo
      italiano si aspettava lo sbarco il giorno 12, mentre in realtà giorno J dell'operazione
      Avalanche era il 9, e questo spostava indietro di quattro giorni l'annuncio. Il
      maresciallo tentò anche in extremis di guadagnare tempo, ma invano, dato che,
      scrive il generale Eisenhower, "quella storia era durata anche troppo perché si
      potesse temporeggiare ancora. Risposi perentoriamente per telegramma che avrei annunciato
      la capitolazione alle 18.30 (del giorno 8) come già convenuto; se poi io
      l'avessi fatto senza che egli (cioè Badoglio) lo facesse contemporaneamente,
      l'Italia non avrebbe più avuto un solo amico in questa guerra": è questo lo
      sfondo che ci fa comprendere gli avvenimenti tra l'8 e il 9 settembre '43.
      Tutto comincia con il Consiglio della Corona organizzato al
      palazzo del Quirinale alle ore 17.30 dell'8; Roma appare quel giorno vuota, deserta e
      silenziosa. Solo il cortile interno del palazzo è affollato di macchine, le vetture dei
      ministri Badoglio, Sorice, De Courten, Sandalli e Guariglia, dei generali Carboni e De
      Stefanis, del conte Acquarone e del maggiore Marchesi, tutti convocati nello studio del
      re, al secondo piano.
      Vittorio Emanuele III siede a capo tavola, ed apre la seduta dicendo: "Come le
      loro signorie sanno, gli angloamericani hanno deciso di anticipare di quattro giorni la
      data dell'armistizio...". Tra i ministri c'è un moto di sorpresa, De Courten
      interrompe il re: "Veramente io non sapevo nulla!". In realtà non solo
      il ministro della Marina, ma anche altri ignorano che l'armistizio sia stato firmato, per
      quanto ciò possa sembrare incredibile: dopo il colpo di Stato del 25 luglio, infatti, le
      trattative immediatamente avviate con gli alleati sono rimaste segretissime, note solo ad
      una cerchia ristretta di persone.
      Tra le due date comunque, la Corte e i comandi supremi avevano preparato un rovesciamento
      delle alleanze (tra l'altro per Casa Savoia c'erano molti precedenti di storici
      voltafaccia, da Vittorio Amedeo II che durante la guerra di successione era passato dal
      campo francese a quello austriaco, a suo figlio, Carlo Emanuele III, che addirittura
      stipulava trattati di alleanza in cui era previsto il passaggio al nemico), giurando e
      spergiurando fedeltà ai tedeschi, che invece avevano già capito il gioco e attendevano
      l'annuncio dell'armistizio solo per occupare militarmente l'Italia, e promettendo nel
      contempo agli angloamericani, in modo tanto solenne quanto falso, l'intervento di un
      esercito del quale erano già decisi a non servirsi: insomma, un tentativo di tenere il
      piede in almeno due scarpe, le cui conseguenze saranno evidentemente molto gravi.
      Emblematico di questo doppiogiochismo italiano è lo stesso
      comunicato con cui Badoglio diede l'annuncio dell'armistizio, e le modalità stesse con
      cui tale annuncio venne fatto: la sera dell'8 settembre il maresciallo, in abito grigio e
      cappello floscio, seguito dal figlio Mario e da due agenti in borghese, si recò alla sede
      dell'Eiar di via Asiago all'auditorio "O", attese che alle 19.43 gli operatori
      interrompessero un programma di canzoni perché lo speaker potesse leggere il bollettino
      di guerra numero 1201, ultimo della serie, e poi recitare il comunicato dell'armistizio,
      con quell'ambigua frase fonte di tante tragedie, relativa alle forze armate italiane, che
      cesseranno qualsiasi ostilità contro gli angloamericani ma "reagiranno ad
      eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza". Tutto questo perché si
      potessero salvare il sovrano e coloro che lo circondavano, che credevano, o fingevano di
      credere, che la propria salvezza coincidesse con quella del Paese: il re diceva
      chiaramente di non voler correre il rischio "di fare la fine del re del Belgio:
      desidero mettermi in condizioni di esercitare le funzioni di capo dello Stato, arbitro
      della mia volontà e in assoluta libertà", e perciò in quel momento, nel
      capovolgimento delle alleanze, non c'era più posto per i doveri del re verso i sudditi
      nella buona come nella cattiva fortuna (parlare con i tedeschi, perdere la corona, magari
      la vita, ma fare uscire l'Italia da un martirio di quel tipo, dare al Paese direttive
      chiare e non ambigue). Invece l'8 settembre passerà alla storia come il giorno delle
      "fuga ingloriosa verso terre sicure", fuga di cui neppure ora si sa bene chi sia
      il responsabile.
      E' inutile dire che anche su questo particolare si assiste ad un incredibile
      "palleggio" di responsabilità: il re lascia sempre intendere di essere partito
      solo perché riteneva proprio dovere seguire il governo, particolare confermato dal
      ministro della Real Casa Acquarone, che dirà davanti all'Alta Corte di Giustizia nel
      marzo del 1946, che "la partenza di Sua Maestà non era affatto prevista"
      - soggiungendo con sconcertante disinvoltura che - "io stesso, data l'ora tarda,
      profittando di una cortese offerta, rinunciai a recarmi a casa e rimasi a dormire al
      ministero della Guerra in una camera messa a mia disposizione. Si immagini il mio stupore
      allorché alle quattro e un quarto del giorno 9, fui chiamato per andare a raggiungere Sua
      Maestà il Re, il quale, su pressante invito del capo del governo, stava per lasciare Roma".
      La fuga sembrerebbe dunque essere stata un'iniziativa del primo ministro Badoglio, il
      quale peraltro afferma che l'idea di abbandonare Roma fu presa "in tutta fretta,
      dopo che il generale Roatta aveva comunicato che la situazione militare nella Capitale
      stava precipitando"; le memorie del generale Roatta, invece, smentiscono su
      tutta la linea le parole di Badoglio, affermando che l'iniziativa fu del governo:
      "...il governo decise di rinunciare all'ulteriore difesa della capitale",
      oppure: "...avendo il governo disposto che il comando supremo e gli Stati
      Maggiori lasciassero anch'essi la capitale". La fuga allora da chi fu decisa?
      Anche il Capo di Stato Maggiore generale Ambrosio nega di avere assunto l'iniziativa di
      fuggire, anzi egli voleva persino rimanere a Roma, e fu il re che dovette addirittura
      ordinargli di seguirlo a Pescara, e lo stesso discorso anche riguardo al principe Umberto,
      che affermò di essere venuto a conoscenza dell'armistizio insieme a tutto il resto del
      Paese, e cioè alle 19.45; dobbiamo anche escludere l'ultima possibilità, quella del
      ministro della Guerra Sorice, perché egli invece a Roma rimase, anche durante il periodo
      dell'occupazione nazista, periodo in cui svolse delicati incarichi clandestini.
      
      
      
        
          |  La prima pagina del Corriere del 9 settembre '43, con
          la
 notizia della cessazione delle ostilità
 | 
      
      Sta di fatto però che, malgrado tutti neghino di aver deciso
      alcunché, dopo otto ore passate nel palazzo del ministero della Guerra in via XX
      settembre tutti partirono, chi convinto che la fuga fosse breve, chi persuaso che altri
      sarebbero rimasti: infatti il vergognoso mistero della fuga avvolge anche un altro enigma,
      e cioè se era davvero già previsto che re e governo lasciassero la capitale. Secondo
      Acquarone, stando alla sua deposizione all'Alta Corte di Giustizia, no: per il popolo,
      attraverso i comunicati ufficiali, il re rimaneva al suo posto, Badoglio era in ispezione,
      l'esercito attendeva eventuali mosse dell'ex alleato il cui esercito sembrava defluire
      lentamente verso il Nord, e malgrado tutto quella sera il clima era abbastanza tranquillo;
      Badoglio, tornato dall'Eiar, chiese agli altri presenti al ministero della Guerra se
      "aveva parlato con voce ferma", poi cenò col figlio Mario in una
      saletta: la solita minestra, il solito bicchiere di vino, e alle 22 come al solito si
      ritirò dicendo "Mi i vado a deurmì".
      L'urgenza si presentò invece sei ore dopo, all'alba del 9, e su questo tutti i
      protagonisti della fuga sono concordi, quando giunsero le voci di un'imminente
      operazione militare per imprigionare il sovrano e il governo: "Se il governo
      fosse rimasto a Roma la sua cattura - dirà poi Badoglio - sarebbe stata
      inevitabile e i tedeschi si sarebbero affrettati a sostituirlo con un governo fascista che
      avrebbe subito provveduto ad annullare l'armistizio"; perciò, per sventare tale
      possibilità, fu deciso su due piedi un prudenziale e momentaneo trasferimento del
      governo, onde evitare la cattura da parte dei tedeschi e mantenere il contatto con gli
      anglo-americani, e Badoglio continuò a dire, sia nei momenti prima di partire sia durante
      il viaggio stesso, che il rientro sarebbe stato questione al massimo di un paio di
      settimane.
      Ed invece si trattava di una fuga bell'e buona, ristretta a pochissime persone (neppure
      tutto il governo, dato che i soli ministri presenti in via XX settembre erano il ministro
      della Guerra ed il primo ministro),  e ben preordinata, non improvvisata a tambur
      battente come invece Badoglio si sforza di far credere: altrimenti non si spiega perché
      già lunedì 6 settembre il Capo di Stato Maggiore Ambrosio avesse detto al ministro della
      Marina di ordinare a due cacciatorpediniere (l'Ugolino Vivaldi e l'Antonio Da
      Noli) di trovarsi a Civitavecchia all'alba del giorno 9, pronti a muoversi in due
      ore.
      Il re, la Corte ed i comandi supremi contavano dunque evidentemente di abbandonare Roma
      anche prima che tutti i membri dello stesso governo fossero messi al corrente del fatto
      che gli alleati avevano deciso di anticipare all'8 settembre l'annuncio dell'armistizio; e
      ricordiamo anche un'ultima incredibile prova di doppiezza del re, che a mezzogiorno del
      giorno 8 sentì la necessità di convocare il nuovo ambasciatore tedesco Rahn, che
      attendeva da dieci giorni di presentagli le sue credenziali, per confermargli "la
      decisione di continuare sino alla fine la lotta a fianco della Germania, con la quale
      l'Italia è legata per la vita e per la morte": se i tedeschi saranno poi così
      spietati con noi sarà stato forse anche perché fatti del genere avranno contribuito ad
      aizzarli...
      
      
      Lo storico Zangrandi ha proposto la tesi che Badoglio abbia
      venduto Mussolini a Kesserling in cambio della possibilità di fuggire indisturbato al sud
      col re: Badoglio avrebbe potuto infatti, secondo Zangrandi, portare con sé Mussolini per
      consegnarlo agli alleati, come prescrivevano le condizioni dell'armistizio, dato che Campo
      Imperatore (dove il Duce era detenuto) distava solo pochi chilometri dalla statale che il
      corteo dei fuggiaschi percorse per raggiungere l'Adriatico. L'ipotesi di questo
      "baratto" non è suffragata da alcuna prova documentale, ma è storicamente
      accettabile: Kesserling sapeva che le guardie del Duce avevano l'ordine di non lasciarlo
      cadere vivo nelle mani tedesche, e si rese forse conto dei problemi che avrebbe avuto se
      Mussolini fosse stato ucciso sul Gran Sasso, e perciò è possibile che abbia avuto la
      convenienza di accettare tale "accordo". Zangrandi in più fa notare, ad
      avvalorare la sua tesi, che la mattina del 9 settembre le diciotto strade che si dipartono
      da Roma furono tutte bloccate dalla Wehrmacht, ad eccezione di una, e cioè la Tiburtina,
      sulla quale si avviarono il re e il suo seguito, e che inoltre tutto l'itinerario (da Roma
      a Tivoli, Avezzano, Chieti, Pescara, Ortona al Mare) fu tenuto sgombro dal traffico
      militare pesante, e che ad ogni posto di blocco tedesco (come conferma lo stesso generale
      Puntoni) non vi fu "nessuna difficoltà per il nostro passaggio", e che
      infine un aereo tedesco seguì dall'alto il percorso della corvetta Baionetta
      fino a Brindisi (ed era uno Junker 88 da bombardamento in picchiata...). La liberazione
      del Duce fu comunque ben organizzata da Hitler, che inviò un gruppo speciale di
      paracadutisti ed alianti a prendere il controllo della prigione sul Gran Sasso; se nel
      calcolo di Badoglio è in effetti entrato questo "baratto", egli non tenne forse
      conto (o ne sottovalutò la pericolosità) delle conseguenze di tale liberazione, con la
      nascita della Repubblica Sociale Italiana, che di fatto significava la guerra civile; è
      però probabile che, ancora una volta, si sia tenuto conto più delle necessità immediata
      di salvezza personale che delle conseguenze che i fatti compiuti avrebbero avuto sul
      Paese.
      La partenza da Roma avvenne la mattina del 9 verso le 6 di
      mattina, ed il cambiamento dell'itinerario non fu neanche in questo caso improvvisato,
      tanto che Supermarina diede ordine, alle 6.30 di quel mattino, all'incrociatore Scipione
      l'Africano e alle corvette Scimitarra e Baionetta, che erano alla
      fonda a Taranto, Brindisi e Pola, di accorrere alla massima velocità a Pescara.
      Del gruppo di sette auto partite dalla Capitale, facevano parte la berlina Fiat 2800 reale
      con Vittorio Emanuele III, la regina, Puntoni e il colonnello De Buzzaccarini; un'altra
      Fiat 2800 con Badoglio, suo nipote Valenzano e il duca Acquarone; un'Alfa Romeo 2500 col
      principe Umberto e i suoi aiutanti; due Fiat 1100 e due Fiat 1500 con gli attendenti, i
      camerieri della famiglia reale e i bagagli: in tutto sette auto con ventidue persone a
      Bordo. Il corteo uscì da Roma percorrendo via Napoli, via Nazionale, l'Esedra, via Gaeta,
      via Castro Pretorio, San Lorenzo, ed imboccò la Tiburtina Valeria; fu fermato a cinque
      posti di blocco, ma ogni volta De Buzzaccarini si sporse dal finestrino dicendo "Ufficiali
      generali" ed ottenendo subito via libera. Il più agitato di tutti parve
      Badoglio, che era fuggito da Roma senza avvertire nessuno, neanche i colleghi di
      gabinetto, neanche il suo amico e ministro degli Esteri Guariglia, e che pareva
      ossessionato dal timore di cadere nelle mani dei tedeschi: il generale Puntoni annoterà
      nel suo diario che continuava a ripetere: "Se ci prendono, ci tagliano
      la testa a tutti", ed inoltre il principe Umberto ricorda che "una
      volta usciti dalla città, la notte divenne freddissima, e Badoglio, che s'era messo in
      borghese ed era in uno stato di grave abbattimento, tremava dal freddo. Io mi tolsi il
      cappottone di generale e glielo detti perché si riparasse. Badoglio lo infilò ma dopo
      qualche istante lo vidi che rimboccava le maniche per nascondere i galloni". Il
      più tranquillo era forse il re, che a tratti in auto conversava in francese con la
      regina, estremamente preoccupata circa la presenza del figlio Umberto, che si era
      inizialmente opposto all'idea della fuga, e a cui il re aveva dovuto più volte ordinare
      di non ritornare a Roma.
      Per l'ora di pranzo il corteo giunse a Crecchio, nella villa dei principi di Bovino,
      proprio mentre le prime decine di migliaia di soldati italiani, intrappolati dai tedeschi
      per essere stati abbandonati senza ordini, venivano chiusi nei carri piombati e avviati in
      Germania; benché Pescara apparisse libera, la Corte decise di prendere imbarco ad Ortona
      al Mare verso sera.
      Alle 23 sulla banchina del porticciolo si ritrovarono così radunate almeno settanta auto
      e duecentocinquanta persone: alla luce azzurrata dei fanali si riconoscevano generali,
      alti ufficiali di marina e dell'aviazione, decine di attendenti, camerieri, carabinieri,
      persino una dama di corte della regina, tutti avvertiti che il re la Corte e Badoglio
      avevano abbandonato Roma. Avvennero scene penose, litigi su chi avesse la precedenza a
      salire sulla Baionetta, grida e strepiti in mezzo a cui Umberto e gli altri
      familiari del re dovettero faticare molto per imbarcarsi: dalla nave qualcuno esortò
      "Via signori ufficiali, un po' di dignità! C'è tra di noi il re...",
      e dal buio una voce rispose "Sì, ma lui ce l'ha il posto per scappare".
      E su questa anonima ma verissima frase, il comandante della Baionetta diede
      l'ordine di salpare, dirigendosi verso sud; "passando davanti ai paesi della
      costa - ricorda il principe Umberto - si chiedeva per radio se ospitavano truppe
      tedesche: Manfredonia, Barletta, Bari e Monopoli risposero di sì, Brindisi infine rispose
      di no, c'era solo un presidio della Regia Marina". Fu a Brindisi dunque che il
      re e il suo seguito giunsero, terminando quella "fuga ingloriosa in terre
      sicure" che doveva concludere per sempre il mito di Casa Savoia.
      
      